Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 22 gennaio 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

Prima di leggere la ventiquattresima parte sarebbe opportuno rileggere la ventitreesima, per aver presente lo sviluppo della trama dei fatti e il filo delle riflessioni; tuttavia, per chi voglia subito andare alle pagine nuove, si fornisce qui di seguito qualche cenno riassuntivo e si riporta l’ultimo frammento di dialogo col quale mi sono congedato prima della pausa natalizia.

Un inviato del Circolo di Oxford, in viaggio verso Napoli dove deve recarsi per chiedere supporto culturale e spirituale ai colleghi universitari, nella traversata in nave incontra un suo conoscente genovese col quale intrattiene una vivace conversazione che tocca temi storici, filosofici e teologici. Approdato durante la peste del 1656, è ricevuto da un professore dello Studio di Napoli che lo conduce al Castel Sant’Elmo, al riparo dal contagio, dove prende a narrargli le vicende del 1647 connesse con la sommossa di Masaniello. La narrazione è giunta al punto in cui il Cardinale Arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino ha ottenuto che il viceré Rodrigo Ponce de Leon duca d’Arcos tolga le gabelle motivo della rivolta e giuri sui capitolati del Privilegio di Carlo V fedeltà al patto col popolo, come aveva chiesto l’anziano parroco della chiesa del Carmine, don Giulio Genoino, un giurista che aveva ispirato il moto popolare e sostenuto Masaniello.

Ecco l’ultima pagina della ventitreesima parte.

 

“Filomarino ha agito come un grande diplomatico, ma ha potuto farlo perché alle sue spalle c’era Genoino, che ha avuto il ruolo di un monarca, sia pure dietro le quinte, indicando cosa bisognava fare e governando la forza e il potere contrattuale dell’esercito messo su da Masaniello.”

“Comprendo: senza Genoino e Masaniello, Filomarino non avrebbe potuto fare molto, e forse si sarebbe limitato a chiedere senza ottenere nulla.”

“Infatti. Ti leggo un altro passo da una lettera scritta in quei giorni da Filomarino a Papa Innocenzo X, in cui dà merito a Masaniello per la felice conclusione degli accordi e per la definizione del piano politico comune:

La confidenza e l’osservanza e il rispetto ch’egli ha avuto in me, e l’ubbidienza che ha mostrato in ordinare e fare eseguire tutte le cose che gli venivano dette e suggerite da me, è stato il vero miracolo di Dio in questo arduo negozio: il quale era altrimenti impossibile di condurre a fine in così poche ore, come si è fatto, con tanta lode e gloria di Sua Divina Maestà, e della Beatissima Vergine, che l’hanno guidato, e protetto ed assistito, a me nelle vigilie, fatiche e diligenze impiegate[1].

“Si avverte una profonda spiritualità, che molto raramente ho riscontrato nei prelati inglesi”.

“Ah, davvero? Sono lieto che, in questo paradiso di diavoli, almeno un angelo tu possa incontrarlo.”

“Lo conoscerò con piacere. Ora mi chiedo, dopo la vittoria del popolo di Masaniello e la pace fatta col viceré, cosa possa essere accaduto che meriti l’espressione del viso che hai fatto quando hai detto che quella non era la fine della storia, con un tono che sembrava alludere che ‘il bello deve ancora venire’?”

“Hai presente alla mente quel Diomede V Carafa, l’altezzoso e antipatico Mustaccio che aveva preso a calci Filomarino ed era stato picchiato a sangue per aver portato a Masaniello un documento falso?”

“Perfettamente!”

“Lo immagini come uno che porge l’altra guancia?”

“No di certo!”

“Ecco, aveva meditato vendetta. Mentre il popolo si accordava col viceré, lui aveva posto in essere un suo diabolico piano.”

 

 

 

 

(Ventiquattresima Parte)

 

49. Nel mondo dei Carafa per comprendere il piano e un fatto accaduto in chiesa. Gli sviluppi della rivolta si fermano a un colpo di scena. “Dunque, sono impaziente di sapere come il Carafa Mustaccio si è vendicato di Masaniello. Anche se è stato violento, questo capo del popolo ha tutta la mia simpatia, soprattutto perché è stato obbediente al Cardinale Filomarino, che ormai è il mio eroe.” Sollecita l’inviato del Circolo di Oxford.

“Ecco, per spiegare cosa abbia fatto il duca di Maddaloni Diomede V Carafa, e come l’abbia fatto, è necessario conoscere almeno qualcosa della sua realtà e della sua famiglia.” Introduce il professore dello Studio di Napoli.

“Non chiedo di meglio.” Lo incoraggia l’interlocutore.

“In città si dice che la maggior parte delle attività di questo nobile sia materia delicata e segreta, perché la sua famiglia è legata a molti potentati, come se fosse una dinastia di sovrani di un regno. Ad esempio, fino a un certo momento non si sapeva nulla del rapporto che avevano con lo Stato dei Presidi Reali, ossia uno staterello sorto in Toscana intorno all’Argentario e all’arcipelago toscano…”

“Lo conosco – interrompe l’Inglese – perché si è costituito formalmente a Londra, con un atto firmato nella nostra capitale da Filippo II, ed è legato dinasticamente a Spagna e Austria.”

“Ah, non lo sapevo. Quello che so è che Diomede V ne è divenuto il governatore e i Carafa hanno introdotto, fra le monete riconosciute da questo Stato, il nostro Tarì d’oro, una moneta napoletana con l’esergo in lingua araba, al fine di facilitare il commercio con gli Arabi, che proprio lì erano stati combattuti…”

“Si, con epiche battaglie navali…” integra l’Oxfordiano.

“Comprendi?” Chiede il Napoletano e, al cenno di assenso del capo dell’altro, prosegue: “I Carafa sono una nobile e antica famiglia di Napoli nata come ramo dei Caracciolo, le cui origini si perdono nella Partenope greca; ha più di cento titoli di aristocrazia storica e, attualmente, con principi, duchi, conti e altri titolati conserva la signoria come feudi di così tante piccole città, comprese Maddaloni e Cerreto Sannita, che nessun membro della famiglia conosce il loro elenco completo. Papa Paolo IV era Gian Pietro Carafa, elevato alla missione vescovile da Giovanni de’ Medici, ossia Papa Leone X…

“Il Papa fiorentino che fu ritratto da Raffaello.”

“Esattamente. Gian Pietro Carafa, prima di diventare Papa, era stato a lungo a capo del tribunale dell’Inquisizione. Quando ascese alla Cattedra di Pietro, come da tradizione, promulgò il suo motto: Dominus mihi adjutor. Ma i Napoletani lo intesero a modo loro e dicevano: «Carafa è diventato Papa: Dio mio, aiutami!»”

“Divertente.” Ride l’Inglese.

“Il radicamento nelle ottine elleniche è inimmaginabile. I Carafa avevano, attraverso i Caracciolo, antenati importanti già nella Partenope greca che diventarono patrizi romani in epoca imperiale; nei secoli hanno tessuto tante trame di rapporti e parentele con l’aristocrazia europea e del bacino del mediterraneo…”

“Perdona l’interruzione, ma quella famiglia dalla quale originavano…”

“I Caracciolo.”

“Si, quella, mi chiedo quale genealogia riconosciuta avesse il suo lignaggio, e se oggi è una famiglia amica dei Carafa.”

“Vale per entrambe le casate dire che oggi sono divise in tanti rami, fra i quali vi sono membri amici fra loro e membri fra loro nemici. Dunque, il lignaggio dei Caracciolo? Immagino che tu intenda il conferimento di nobiltà in epoca cristiana, vero?”

“Precisamente.”

“Nel nostro Duomo, la Cattedrale Metropolitana dedicata alla Madonna Assunta dove si venera il patrono San Gennaro, vi sono le spoglie del capostipite Teodoro Caracciolo, morto l’anno 976, e della moglie Urania; era l’epoca del Ducato di Napoli, dipendente dall’Esarcato di Ravenna, ossia il governo italiano dell’Impero Romano d’Oriente, e i Caracciolo ottennero la rappresentanza dei nobili nel Sedile o Seggio di Capuana[2], presso la piazzetta Capuana di Napoli. Da allora sono stati protagonisti in tutte le vicende storiche della nostra città. In epoca più recente, un Caracciolo ha acquisito grande fama per aver narrato la cronaca dei fatti della Battaglia di Lepanto del 1571: I Commentari del conte di Biccari e duca di Airola Ferrante Caracciolo, pubblicati nel 1581[3].

“Ci terrei molto ad averne una copia. Sono sicuro che tutto il Circolo di Oxford sarebbe entusiasta di leggere la cronaca di quella battaglia che ha salvato l’Europa cristiana dalla barbara dominazione ottomana. Una vittoria che ha preservato dalla cancellazione il cristianesimo e tutta la cultura delle nostre antiche tradizioni.”

“Ti darò una delle mie copie.”

“Te ne sarò per sempre grato. In Inghilterra si ricorda la Battaglia di Lepanto come grande vittoria navale della Lega Santa contro l’Impero Ottomano, ma io non so quali Stati presero parte alla Lega Santa.”

“Te lo dico subito! Sai, qui a Napoli è considerata una nostra vittoria e le abbiamo dedicato una piazza; ecco i membri della Lega Santa: Regno di Napoli, Regno di Sardegna e Regno di Sicilia – anche in rappresentanza dell’Impero di Spagna – Granducato di Toscana, Repubblica di Genova, Repubblica di Venezia, Stato Pontificio, Sovrano Ordine Militare dei Cavalieri di Malta, Ducato di Savoia e Ducato di Urbino.”

“Ora mi è chiaro: un imponente dispiegamento di forze in realtà tutte italiane. Ma, perdona la mia interruzione sui Caracciolo, mi stavi dicendo dei Carafa per aiutarmi a capire il piano concepito da Diomede Carafa contro gli insorti di Masaniello… sono impaziente di conoscere la prosecuzione della vicenda ma, ti confesso, allo stesso tempo temo molto che siano accadute cose spiacevoli ai protagonisti con i quali ho simpatizzato…”

“Sapere della tua immedesimazione mi lusinga, perché desideravo proprio trasmetterti almeno un po’ della passione con la quale abbiamo vissuto quelle vicende noi Napoletani.”

“Ti ascolto.”

“Ti dicevo delle trame di rapporti tessute nei secoli dai Carafa che, nelle loro controversie economiche e rivalità politiche, ricevevano spesso inaspettati aiuti dall’estero. In tal modo, in molti frangenti si sono resi indipendenti dall’egemonia cittadina degli stessi Caracciolo e degli altri nobili. All’epoca in cui stabilirono buoni rapporti con la Repubblica di Pisa, colsero l’opportunità di matrimoni, amicizie e condivisioni di patrimoni per confabulare e consegnare al mito popolare una storia sulle origini pisane della loro famiglia. Forse per emanciparsi definitivamente dal tronco genealogico originale, ripudiandolo: un nobile pisano dei Sismondi salvò la vita all’Imperatore Enrico IV il quale, mentre il Toscano si frapponeva fra la lama dell’attentatore e il suo corpo, si vuole che abbia detto: “Cara fe’ m’è la vostra”. Dunque, Carafa da Cara-fe, e lo stemma a strisce orizzontali rosse derivato dalle righe di sangue lasciate sulla corazza del Sismondi dalle dita insanguinate.”[4]

“Storia falsa, quindi?”

“Del tutto. A Napoli sanno tutti che Carafa deriva come soprannome da caraffa, una bottiglia di vetro panciuta usata a tavola per le mescite, ma anche come unità di misura, perché una caraffa napoletana è sempre 0,727 di un litro, e 60 caraffe sono un barile. Nessuno sa se il soprannome abbia designato un capostipite dedito al bere o se sia vera la storia popolare secondo cui un servitore di tavola, così soprannominato da quel che portava al desco, abbia sposato una principessa Caracciolo, dando luogo ai Caracciolo-Carafa.”

“Ma prima mi sembra che tu abbia detto che anche il principe di Roccella è un Carafa, o mi sbaglio?”

“Si, Roccella è un ‘Carafa buono’. Ve ne sono. Vi sono santi della nostra Chiesa in quella famiglia!”

“Complicato. Per capire: i Carafa si sono inventati un’eroica origine pisana per rompere definitivamente ogni legame con i Caracciolo, giusto?”

“Si, ma il Mustaccio ha sposato Antonia Caracciolo!” Esclama divertito il Napoletano.

“La parola contraddizione esprime il tratto distintivo della famiglia, più dello stemma.” Nota l’Inglese con un’espressione tra il meravigliato e il sorridente.

“Si dice che il duca di Maddaloni, Diomede V Carafa detto Mustaccio, finanzi e spesso gestisca milizie di fuorilegge delle campagne del circondario, che vivono commettendo reati e soprusi a danno dei contadini, ma sono pronti a porsi al servizio del miglior offerente come mercenari.”

“Ed è vero?” Chiede l’ospite.

“Non proprio, perché in realtà, questi banditi occupano le aree incolte e abbandonate dei due feudi dei Carafa. Si, perché oltre al feudo di Maddaloni, i Carafa avevano come contea il feudo di Cerreto Sannita, che era stato fin quasi alla fine del XV secolo di proprietà della famiglia francese dei Sanframondo o Sanframondi legata agli Angioini.”[5]

“Gli Angiò del tempo. Interessante. Un giovane Angiò fu promesso alla regina Elisabetta.”

“Infatti. Gli Aragonesi, sconfitti gli Angioni, nel 1483 diedero Cerreto Sannita ai Carafa, i quali si limitarono a ricevere i tributi senza mai recarsi nella cittadina fino ai nostri giorni, quando Mustaccio decide di esercitare tutti i diritti di potere del feudatario sul popolo, devoto e obbediente al Vescovo di Cerreto, che era Sigismondo Gambacorta, un Napoletano fedele ai Sanframondi, che aveva voluto l’edificazione del Convento di San Francesco nella vicina località di Guardia Sanframondi…”

“Ah, uno legato ai Francesi angioini e non agli Spagnoli aragonesi come i Carafa, giusto?”

“Esatto. Ma c’è di più. Ti racconto un episodio che ti dà un’idea del tipo di persona che è Diomede V Carafa: fa sapere agli abitanti di Cerreto Sannita che intende assumere un ruolo esecutivo attraverso una sorta di pubblica investitura religiosa che lo presenti e lo consacri come padrone delle terre e delle persone che vi abitano. Il Vescovo Gambacorta si oppone e dice ai cittadini di non accoglierlo in chiesa perché è un empio impenitente. Carafa si accorda in segreto con i canonici della cittadina sannita i quali, appena Gambacorta si assenta per una missione, gli organizzano un ingresso trionfale nel centro rurale con una grande processione alla quale Mustaccio prende parte con cotta, stola e croce. I canonici si vantano di averlo condotto sotto il baldacchino a cantare il Te Deum e averlo indotto a baciare la croce, ma lui ha ottenuto il suo scopo di poter asservire un popolo, mentre le autorità religiose condannano l’accaduto e scrivono che il fatto è avvenuto con «grave pregiudizio della giurisdizione ecclesiastica, vilipendio della chiesa e scandalo pubblico».”[6]

“Lasciami indovinare – fa l’Oxfordiano – Diomede Carafa dice ai fuorilegge che erano sulle sue terre di Maddaloni e Cerreto Sannita che li lascerà rimanere indisturbati se si metteranno al suo servizio, altrimenti li condanna a morte o li fa massacrare a cannonate dall’esercito vicereale. Vero?”

“Pressappoco. A dire il vero non si conoscono i termini esatti del ricatto, ma deve essere stato qualcosa di simile.”

“Come fece Elisabetta con i corsari…”

“Un paragone plausibile, anche se devo dire che non ho mai conosciuto un pirata, un corsaro o simili, e tuttavia questi sinistri terrazzani credo siano per molti versi differenti. Non saprei bene a parole definirti un prototipo che ti consenta di rappresentarti alla mente queste figure di banditi, alcuni dei quali appartengono alla peggior genia di grassatori e feroci assassini, altri invece, soprattutto coloro che con le gesta ignobili si sono arricchiti, sono diventati generosi e hanno acquistato la simpatia dei semplici che ne fanno dei piccoli re del luogo. Alcuni di questi finiscono addirittura per ispirare i cantastorie…”

“Capisco perfettamente. Ne abbiamo anche noi, e gli antichi cantastorie di alcuni secoli fa sapevano la verità sul più famoso, che ora, diventato un personaggio di letteratura, teatro e fantasia popolare, è stato trasformato in eroe, paladino di poveri ed oppressi. Era il capo di una brigata di banditi interdetti dalla città, che compiva rapine perché impoverito da tasse troppo alte, e viveva nello Yorkshire dove c’è la sua tomba, ma la leggenda ha spostato di tempo e luogo le sue gesta, facendone un oppositore del principe che era andato al potere usurpando il trono di suo fratello. L’uomo si chiamava Robyn Hode, o Robin Hood come diciamo oggi…”

“Robin Hood! Lo conosciamo: i Provenzali hanno portato a Napoli le canzoni delle sue gesta, che lo celebravano come fedele al sovrano legittimo Riccardo Cuor di Leone spodestato dal principe Giovanni; un arciere infallibile che viveva nella foresta di Sherwood e rubava ai ricchi per dare ai poveri vessati dalle tasse dello Sceriffo di Nottingham…”

“È questa la leggenda che si diffonde dopo il poema allegorico del 1337 Piero l’Aratore, di William Langland, che rende tutti edotti della fama popolare dell’arciere vendicatore quando il chierico londinese dichiara: «Non conosco bene le preghiere di Nostro Signore, ma conosco le ballate di Robin Hood». Era già famosa la leggenda.”[7]

“Tutto falso?” Chiede il Napoletano.

“Non credo, ma è difficile distinguere e sapere dove finisca la realtà e cominci la fantasia. Il primo vero racconto completo che ho potuto leggere è del 1510: Le Gesta di Robin Hood, senza alcun riferimento a fonti o collegamenti con i frammenti di due secoli prima. William Shakespeare ha un’idea ben precisa su Robin Hood: lui è convinto che l’uomo sia stato un pretesto per far rivivere in epoca cristiana il mito celtico di una divinità della foresta…” Spiega il Britannico.

“Ah, per questo è vestito di pelli verdi o al massimo brune, con stivali a punta come un elfo, e a volte il pizzo al mento…” Lo interrompe il Partenopeo.

“Non so se dobbiamo prendere sul serio la caratterizzazione iconografica, ma Shakespeare, in Sogno di una notte di mezza estate, il suo folletto celtico Puck lo chiama Robin Goodfellow che, oltre all’assonanza che hai sentito nella mia pronuncia, gioca sul significato di Goodfellow che voi rendereste, credo, con buon diavolo, ma che nella mia lingua è semanticamente pertinente al ruolo leggendario di Robin Hood.” Interrompe a sua volta l’inviato, completando la spiegazione.

Nel silenzio che li circonda, si sente un passo affrettato e scandito avvicinarsi sempre più, fino ad attrarre la loro attenzione: è un frate certosino che si ferma appena si accorge di essere scorto e, senza avvicinarsi, dopo aver chinato il capo in segno di saluto, con un volume della voce che tiene conto dell’amplificazione dovuta agli spazi vuoti tra le mura nude, annuncia: “Dopo l’Angelus, al suono della campanella, siete attesi nel refettorio”.

“L’Angelus – osserva l’Inglese – è la preghiera più bella in onore della Santa Vergine.”

“Noi si prega l’Angelus tre volte il giorno.” Comunica un po’ compiaciuto il Napoletano.

“A Oxford, intendo allo Studio, non si prega più.”

“Allo Studio anche da noi non si prega, eccetto per qualche solenne cerimonia. Ora qui, coi frati, si fa come in chiesa e nelle nostre case.”

“Sai che è una preghiera antica, l’Angelus. Risale al Concilio di Clermont, quando Urbano II la introdusse per ringraziare la Vergine Maria del buon esito della crociata, mi sembra fosse il 1095; ma secondo alcuni frati esisteva già e il Papa l’ha solo resa ufficiale.”

“Ho imparato qualcosa. Come molti in Italia, io credevo fosse di San Bonaventura da Bagnoregio che, quando era ministro dei Francescani, al Capitolo Generale dei Frati Minori di Pisa del 1263, prescrisse il suono della campana per esortare i fedeli a salutare la Madonna prima della sera, all’ora in cui si riteneva si fosse verificato il miracolo dell’Incarnazione.”[8]

“San Bonaventura ha molti devoti anche in Inghilterra, sia anglicani che cattolici come noi. Fu Luigi XI di Francia a prescrivere per il suo Stato la recita dell’Angelus tre volte al giorno, con il suono della campana anche a mezzogiorno… Ma, in questa nostra piacevole conversazione, ci siamo un po’ persi o, per meglio dire, ti ho un po’ sviato con le mie interruzioni…” Osserva l’Inglese.

“Si, fra corsari, Robin Hood e preghiere siamo fuggiti via dal Carafa e dall’insurrezione…” Risponde ridendo il Napoletano.

“C’era un piano diabolico del Mustaccio, mi avevi detto, vero?”

“Ecco il piano: 300 banditi di Maddaloni e Cerreto Sannita agli ordini del comando della sua guardia di palazzo a Napoli devono fingersi popolani volontari desiderosi di combattere contro le milizie vicereali e appassionati ammiratori del coraggio di Masaniello, e così infiltrarsi in ogni ganglio dell’organizzazione degli insorti: dalle vedette del porto ai comandi delle ottine, dai lazzari di Porta Capuana, dove hanno il loro quartier generale, alle bande dei decumani e dei pallonetti. Gli infiltrati sono organizzati in una rete di trasmissione delle informazioni, che devono giungere momento per momento al palazzo di Diomede Carafa, ma allo stesso tempo queste spie devono impegnarsi nel mostrarsi obbedienti ed efficaci per conquistare la fiducia degli insorti. Vedi – fa il professore rivolgendosi al collega britannico con un tono più confidenziale – ho letto che gli informatori segreti della regina Elisabetta avevano la virtù del silenzio: qui a Napoli uno che parla poco è già un sospetto traditore, perché la vita sociale è un continuo scambio di umori, sensazioni, impressioni e sentimenti. Le vie di Napoli, fuori da guerre, calamità e carestie, sono come un grande teatro spontaneo di improvvisazione, di recite a soggetto, di dialoghi con frizzi, lazzi e invenzioni umoristiche per attrarre l’attenzione e carpire sorrisi, risate, approvazione e condivisione; un grande palcoscenico in cui tutti sono allo stesso tempo attori e spettatori. Una persona silente o è un “puorco ’e fore morra”[9], ossia un taciturno che si apparta per carattere, e in quanto tale conosciuto dal vicinato, oppure è subito considerato uno “che tene ’o mariuolo ’ncuorpo”, ossia che occulta in seno intenzioni malevole o propositi malsani. Gli infiltrati del Mustaccio, che i Napoletani non conoscevano, dovevano, per questo, mostrarsi estroversi e amichevoli, dovevano familiarizzare, esprimere simpatia, condividere pane e frutta delle proprie bisacce – indispensabili in quel frangente in cui anche le donne erano fuori di casa in rivolta e nessuno poteva stare ai fornelli – offrirsi volontari per i compiti più umili e rischiosi, in breve: fare di tutto per apparire assolutamente affidabili, se non ammirevoli, agli occhi dei rivoltosi.”

“Un’insidia terribile: trecento falsi amici eterodiretti, pronti ad agire come un uomo solo!”

“Proprio così. Ma lo scopo principale del piano era, dopo aver ottenuto la fiducia del popolo e dei suoi capi, influenzarli diffondendo un’idea, la stessa, originata da trecento voci diverse in tutta la città…”

“Un modo per manipolare le coscienze.” Rileva l’Inglese.

“Esatto.” Conferma il Napoletano.

“Convincere che sia vero e giusto quello che dice la maggioranza, secondo l’antico adagio: vox populi, vox Dei.”

“Proprio questo era il punto: dopo aver ispirato alla maggioranza pensieri a sostegno delle proprie rivendicazioni, gli infiltrati del Duca Diomede Carafa dovevano diffondere da trecento fonti convergenti il discredito su Masaniello, inducendo il popolo stesso a ripudiarlo come capo e, infine, a ucciderlo come traditore.”

A sentire questo, l’inviato di Oxford, senza rendersene conto, articola in parole il pensiero che gli era sorto spontaneo: “Mi chiedo il perché di questo male.”

“Perché quelli come il Carafa si sono emancipati da Dio.” Si sente rispondere.

“Emancipati? Non capiscono che emanciparsi da Dio vuol dire rendersi schiavi del mondo?”

“No, non lo capiscono. Perché non è una questione di intelletto, ma di coscienza.”

“Non se ne rendono conto. Vuoi dire che non riescono a vederlo con la mente?”

“Si, è così. Perché mentre l’intelletto si esercita attraverso la logica, il ragionamento o il calcolo, che si applica a qualcosa che ha riscontro in oggetti di memoria, questa capacità di coscienza riguarda il cogliere un’evidenza della realtà.”

“Già. Mi piace come l’hai detto. L’essere schiavi del mondo, di atei e pagani, ai nostri occhi è un’assoluta evidenza di realtà!”

“Intanto, il piano del Mustaccio ha funzionato alla perfezione per la prima parte, ossia quella della conquista della fiducia, perché nessuno sembra sospettare la presenza delle spie. E così giunge il momento di passare alla seconda fase, quella del discredito. Ma la disaffezione per il biondo pescatore non si sviluppa così rapidamente ed omogeneamente come era accaduto per la fiducia verso gli infiltrati: troppi lo conoscevano personalmente da molto tempo; tanti avevano condiviso con lui in mare e alla vendita del pescato tanti giorni della propria vita, apprezzandone la generosità, la lealtà, l’agire disinteressato, la sincera passione civile e la sensibilità solidale con la gente bisognosa di aiuto.”

“È questo, per me, l’aspetto più spregevole di questa prassi satanica: calunniare per facilitare l’omicidio. Cosa c’è di peggio?” Si sdegna l’Inglese.

“Ahimè, al peggio non v’è mai fine, si dice in Italia, ma ti capisco! Dunque, Diomede Carafa ha bisogno dell’aiuto dello stesso viceré per attuare la seconda parte del piano: suggerisce infatti al duca d’Arcos Ponce de Leon di convocare segretamente Masaniello e corromperlo. Subito dopo, i testimoni occulti della corruzione avrebbero reso pubblico il fatto, facilitando ai trecento infiltrati il compito di sobillare il popolo, fomentando il risentimento nei confronti di chi, per avidità e brama di potere, avrebbe disatteso l’impegno d’onore preso con la sua gente.”

“E il viceré che fa?” Domanda l’Oxoniano.

“Il corpulento e pingue sostituto del sovrano di Spagna – risponde il Partenopeo – lusinga in ogni modo il giovane pescatore, sollecita le sue ambizioni con la promessa di alte cariche e lo tenta con la prospettiva di una vita agiata e un avvenire da nobile ricco e potente. Ma Masaniello rifiuta in modo categorico, e spiega che quel tentativo di corruzione rivela il non aver compreso la drammatica realtà di una rivolta di popolo che potrà placarsi solo quando si vedrà l’attuazione dei capitoli previsti da don Giulio Genoino in ottemperanza del Privilegio di Carlo V.”

“Bravo Masaniello!” Esclama l’Oxfordiano.

Noi, in proposito, leggiamo quanto riferisce Gleijeses: “Masaniello, che era stato nominato Capitano del Popolo, cominciava ad avere molti nemici anche se si era dimostrato una persona onesta, rifiutando un tentativo di corruzione da parte del duca d’Arcos”[10].

Il professore riprende: “Gli infiltrati vanno ugualmente avanti con maldicenze e calunnie, ma il popolo non crede loro, perché il giovane Capitano, subito dopo essere uscito dal palazzo, denuncia alla gente riunita in permanenza il tentativo di corruzione e dichiara che ognuno può verificare il suo pegno di fedeltà dal fatto che rimane in mezzo a loro, e possono trovarlo nel quartier generale della chiesa del Carmine.”

“A questo punto Mustaccio, visto il fallimento – chiede l’Inglese – non cambia strategia?”

“No, conserva il piano generale, ossia non dà contrordini agli infiltrati – spiega il Napoletano – ma devo riferirti un evento che ho deliberatamente omesso quando ti ho raccontato dei fatti che portano al lavoro comune di Filomarino col pescatore e tutta la consulta del popolo, che si protrae tutta la notte tra il 10 e l’11 di luglio. Te ne ricordi?”

“Certo, quando credevo si fosse giunti a un lieto fine!”

“Ho omesso un fatto che, senza tutta la mia esposizione sui Carafa, sul duca Mustaccio e sul suo piano con i trecento infiltrati, sarebbe risultato incomprensibile, almeno tanto quanto sorprendente era parso a tutti i testimoni…” Spiega il professore.

“Dunque, qualcosa che è accaduto in chiesa quando si lavorava al cambiamento delle leggi?” Chiede il suo interlocutore.

“Si, in particolare quando si è data pubblica lettura dei capitoli del Privilegio di Carlo V e del documento redatto da don Giulio Genoino. Nella chiesa del Carmine, il quartier generale degli insorti, erano presenti gli infiltrati che lavoravano ancora per conquistare la fiducia dei seguaci di Masaniello, ma nessuno aveva neanche un lontano sospetto di questo, e tutti si sentivano al sicuro. Ad un tratto, si sentono risuonare dei colpi di archibugio e si vede che sono diretti verso Masaniello. Cosa stava accadendo? Diomede Carafa, sapendo certa la presenza in chiesa del pescatore capopopolo, aveva pensato di abbreviare i tempi del piano e sbarazzarsi subito di lui, commissionando un attentato: incarica il noto bandito Domenico Perrone, coadiuvato da un tale Antimo Grasso[11], di sparare con gli archibugi il ventisettenne del Vico Rotto. Appena uditi gli spari, la folla corre nella direzione di provenienza, individuando i due sicari e altri loro compari in fuga, sventando in tal modo l’attentato e riuscendo ad arrestare tanto Domenico Perrone quanto Antimo Grasso: il primo è subito condannato alla decapitazione[12] e il secondo, messo alle strette, confessa di essere stato assoldato da Diomede Carafa, duca di Maddaloni e conte di Cerreto Sannita. Anche altri, presi dai rivoltosi, confessano la stessa cosa.”[13]

“Allora, a quel punto, il popolo sa di Diomede Carafa!” Constata l’inviato di oltremanica.

“Certo – risponde il collega – e lo ritengono mandante dell’attentato. Infatti, dopo aver arrestato i due attentatori, una pattuglia di insorti si mette sulle tracce del duca di Maddaloni, ma non lo trova…”

“Ma, quando Mustaccio viene preso e picchiato a sangue per aver portato un documento falso, chi lo aveva arrestato e perché lo lasciano andare?” Interrompe l’inviato.

“Non si sa bene. Questo è un punto un po’ oscuro e controverso. Qualcuno racconta che è stato lo stesso Masaniello a tirarlo giù da cavallo, afferrarlo per i capelli, picchiarlo e farlo prigioniero[14]; ma altri testimoni non confermano. Alcuni sostengono che è stato aiutato a fuggire da Giuseppe Apperti, un Maddalonese che era fra gli insorti e presumibilmente uno degli infiltrati, ma alcuni fedelissimi del pescatore dicono di non conoscere l’Apperti. Non ero presente: ero nel Palazzo dei Regi Studi al riparo, ma qualcuno fra coloro che erano lì dice che lo hanno lasciato andare perché impietositi. In fondo, aveva solo tentato di raggirarli, e magari hanno pensato che era stato il viceré l’ideatore del raggiro. Dopo, quando hanno saputo che era il mandante dell’attentato al loro capo, hanno deciso di giustiziarlo…”

“Ma non lo trovano. E si arrendono subito? Non pensano di cercare di individuare la base operativa?”

“All’ultimo quesito non so rispondere. Ma posso dirti che, non solo non si arrendono, ma agiscono con furia travolgente. In tanti montano a cavallo e lo inseguono al galoppo senza riuscire a raggiungerlo, ma senza mai perderlo di vista fino al giorno dopo, quando lui varca le porte della città di Benevento, possedimento dello Stato della Chiesa, dove chiede asilo politico e protezione personale.”

“Accidenti! E il Cardinale Filomarino non poteva fare nulla con la Chiesa?”

“No di certo, si tratta di leggi antiche. Di fatto Diomede Carafa rimane nascosto a Benevento fino alla fine dell’insurrezione. Allora gli insorti decidono di giustiziare il fratello Giuseppe Carafa, in sua vece. Lo cercano a tutte le ore e più volte nel Palazzo Carafa del quartiere Stella. Uno dei luoghi storici più complessi, misteriosi, mostruosi, gloriosi, conflittuali e suggestivi della storia di Napoli dove, non per caso, si concentrava il potere di quella famiglia con le poche luci e le troppe ombre che erano sulla bocca di tutti.”

“Cos’ha di strano?”

“Tutto!”

“Spiega, per favore.”

“Dopo la costruzione della Porta di Costantinopoli nel secolo scorso, è diventata un’area definitivamente inclusa nel territorio urbano, ma tradizionalmente era considerata una terra di confine con l’aldilà, col regno dei morti. Comprende Materdei, poi un vallone dove l’aria è salubre, e per questo è denominato rione Sanità e, infine, il borgo dei Vergini. Tutta l’area era adibita a sepoltura in epoca greco-romana, ma si narrava che lì esisteva un’antichissima necropoli prima della fondazione della città[15], da qui la leggenda di regno dei morti. Tra il II e il IV secolo d.C., durante la persecuzione dei cristiani da parte dei Romani, nel quartiere Stella nascono dei vastissimi mondi sotterranei, ancora non completamente esplorati, come le Catacombe di San Gennaro e di San Gaudioso; dal Medioevo in quell’area, e particolarmente nel rione Sanità, si verificano innumerevoli guarigioni miracolose, la cui fama si diffonde così tanto da farvi accorrere gente da ogni dove per ottenere la guarigione delle più disparate malattie, e vi è anche chi sostiene che si chiami “Sanità” per questa ragione. Vi abbondano indovini, fattucchiere, chiromanti, negromanti, astrologi e praticanti di arti demoniache che comportano l’uso di teschi e parti di cadavere. I Carafa sono i signori di quel quartiere.”

“Perché Stella?”

“Perché anticamente, su un colle che dominava il vallone della Sanità, presso la Porta San Gennaro, si custodiva un’antica immagine della Vergine Maria nella quale figurava una stella; per dare degna collocazione alla Madonna della Stella fu fondata nel 1571 la chiesa di Santa Maria della Stella, poi riprogettata e ingrandita, come la si vede ora, da Domenico Fontana, credo nell’anno 1587.”

“Dunque, il regno dei Carafa è nel quartiere dei misteri, dei morti, degli spiriti disincarnati e dei maghi, ossia di quelli che frodano i gonzi e gli ingenui fingendosi veggenti, mediatori con l’aldilà o persone dotate di poteri soprannaturali. Una bella copertura per occultare crimini e misfatti, attribuendoli a forze soprannaturali, ma anche per fare giochi di magia.” Osserva l’Inglese.

“Appunto, per questo gli insorti fanno varie incursioni nel palazzo e cercano dappertutto nel circondario, senza riuscire però a trovare Giuseppe Carafa. Sì, perché il ‘gioco di magia’ – come dici tu – era riuscito alla perfezione. Il fratello del Mustaccio si era travestito da frate e, con ingegnosi accorgimenti, era riuscito a modificare la sagoma del corpo e l’aspetto di quel poco che si intravvedeva del viso sotto il cappuccio…”

“Era diventato un Munaciello?” Prova a chiedere l’inviato.

“Tutt’al più un Monacone! Ma che ne sai tu del Monaciello?” Stupisce il Partenopeo.

“Me ne ha parlato un marinaio sulla nave. Mi ha detto che a Napoli si crede in uno spiritello vestito da monaco che in napoletano si chiama Munaciello!”

“È vero – ammette sorridendo il professore – qui sopravvivono credenze antiche come quelle dei demoni domestici, demoni nel senso del daimon greco… Abbiamo una lunga lista di demoni domestici, fra cui i più noti sono la Bella Mbriana, il Munaciello, lo Scazzamauriello e il Farfariello. Sono stati modificati nei secoli dalla fantasia creativa e dai lievi cambiamenti cui va incontro nella tradizione orale la memoria della superstizione, anche se la sua connotazione prevalente è la cristallizzazione stereotipica e l’impenetrabilità alla ragione.”

“Magnifica caratterizzazione del pensiero superstizioso – rileva l’Inglese, e poi riprende sul misterioso spiritello incappucciato – il Munaciello è imprevedibile e dispettoso, mi hanno detto, ma chissà perché è l’unico spirito domestico partenopeo di cui si parla fuori di Napoli…”

“Forse perché è quello visto da più persone, anche ai nostri giorni. Napoli non è facile da conoscere. A proposito, sai che sotto la città di Napoli ci sono innumerevoli cisterne?”

“No. Vuoi dire che sotto i nostri piedi vi sono grandi cavità sotterranee?”

“Esattamente. Per edificare Partenope gli antichi Greci usavano il tufo, che prelevavano mediante scavi sottoterra, creando decine e decine di enormi cavità. I Romani sfruttarono queste cavità per la raccolta d’acqua collegata al sistema degli acquedotti. Ogni casa è provvista di un pozzo che può attingere acqua dalla cisterna sottostante.”[16]

“Straordinario!”

“I pozzi hanno sempre bisogno di manutenzione, della quale si occupano i “pozzari”, detentori del sapere di un mestiere che si tramanda dalla notte dei tempi e richiede anche particolari caratteristiche fisiche: devono essere piccoli di complessione e statura, estremamente agili, bravi arrampicatori e soprattutto esperti nel muoversi con destrezza, coperti come sono di mantello e cappuccio, per ripararsi dalle colate d’acqua. I pozzari possono emergere dal pozzo all’interno dell’abitazione in qualsiasi momento. Ecco perché la gente a Napoli continua a vedere il Munaciello.”

“Ora ho capito!”

“Giuseppe Carafa, invece, come finto monaco, si sente perfettamente al sicuro, perché era anche stato visto ma non riconosciuto. Ritiene ormai di essere protetto dalla nuova identità. Gli insorti, dal canto loro, non si danno pace, perché fin dall’inizio della fuga di Diomede verso Benevento hanno bloccato le principali vie di uscita dalla città e hanno messo dei drappelli armati in corrispondenza dei principali punti di sbocco della Napoli sotterranea, delle catacombe e dei passaggi segreti usati dai nobili, e dunque non capiscono come possa essere sfuggito loro il fratello del duca di Maddaloni.”

“Scacco matto?”

“Non direi. In quei giorni, per ordine di Masaniello, tutti i messaggeri non inviati dal popolo dovevano essere fermati e perquisiti, e dovevano essere requisite le eventuali missive in loro possesso. Questa attività di controllo consente agli insorti di intercettare un messaggio indirizzato al viceré, in cui lo si esortava a sparare dei colpi di cannone da qui, da Castel Sant’Elmo, sul popolo, per intimorirlo. I rivoltosi comprendono subito che il mittente deve essere un nobile autorevole ascoltato dal duca d’Arcos e, in men che non si dica, si mettono all’opera per rintracciarlo: poco dopo risalgono al finto frate e, senza difficoltà, lo smascherano. Giuseppe Carafa è condannato dal popolo alla pena capitale e giustiziato, come si vede nel dipinto documentale di quel realistico pittore di tragedie che è Micco Spadaro[17]. Appena possibile, ti mostrerò i suoi quadri, vedrai sarà come essere stati un po’ testimoni di queste vicende.”

L’Inglese fa un cenno del capo, sorridendo, per assentire e ringraziare, poi:

“Dunque, con questa parentesi hai soddisfatto la mia curiosità sulla reazione degli insorti alla consegna del falso documento da parte di Diomede Carafa, ma col filo della narrazione eravamo giunti al tentativo fallito di corruzione da parte del viceré. Se ho ben capito, il pescatore ne era uscito rafforzato nella stima, per aver dimostrato integrità e coerenza…”

“Esatto, e quindi sia pur da lontano, da Benevento, Mustaccio è alle prese col problema di trovare un nuovo modo per delegittimare Masaniello, facendo sempre leva sugli infiltrati nel popolo. Il governo della città da parte del pescatore di Vico Rotto comincia il venerdì 12 luglio 1647, ma il giorno precedente, al termine della cavalcata trionfale verso il Palazzo Reale con lo stato maggiore del popolo, prima di ricevere il titolo di Capitano Generale del Fedelissimo Popolo di Napoli, accade un fatto apparentemente trascurabile e ignorato da molti, ma non da tutti: venute meno di colpo tutte le cause dell’altissima tensione emotiva espressa quale rabbia e paura, in uno stato di eccitazione collettiva che aveva comportato digiuni e notti insonni, Masaniello crolla in terra svenuto.”[18]

Prima che l’Inglese possa articolare le parole che gli sono affiorate alla mente, entrambi sono messi a tacere dall’argentino, vibrante, acuto, insistente e preannunciato suono della campanella, che ricorda loro di recarsi alla sala del refettorio, secondo le istruzioni del frate certosino.

 

50. Intermezzo conviviale: l’inviato di Oxford alla mensa dei frati in Sant’Elmo. I frati, venuti dalla vicina Certosa di San Martino, avevano organizzato l’ospitalità nella fortezza di Sant’Elmo per i rifugiati in fuga dalla peste che stava falcidiando la popolazione di quasi tutti gli altri quartieri della città. Per quanto era stato possibile, avevano allestito alloggi completi e indipendenti per molte famiglie, mentre con i membri dello Studio avevano definito un accordo di supporto, fornendo loro i pasti in un refettorio comune, oltre che i posti letto nelle stanze libere della fortificazione. Gli accademici, dal canto loro, avevano deciso di supportare economicamente le iniziative caritatevoli della Certosa.

Per raggiungere il refettorio, i due scendono lungo le rampe del castello e l’Inglese volge il capo all’azzurro del cielo inquadrato dalle pietre antiche, quasi a volerlo catturare con gli occhi e portarselo dentro nella penombra della sala. Il professore napoletano lo precede e, preoccupato di deludere le attese del suo ospite, senza fermarsi gli si rivolge:

“Non so cosa i frati siano riusciti a rimediare per il pasto. Devi perdonarci, ma la pestilenza ha reso tutto molto difficile…”

“Non preoccuparti, noi a Oxford siamo parchi.”

“Noi no, amiamo la buona tavola…”

“Non temete i peccati di gola?”

“In questo periodo no, perché i frati che ci ospitano qui, in Sant’Elmo, sanno bene guidarci alla pratica dei digiuni penitenziali. Ma, a pensarci bene, anche prima dell’epidemia non temevamo di peccare, perché da noi tutto ciò che attiene al convivio proviene da antichi costumi tramandati come regole di buon gusto, sapienza nelle scelte, eccellenza nella preparazione, estetica della presentazione, equilibrio fra vivande e libagioni, fra razioni e commensali: una pratica quotidiana appresa sin dall’infanzia quale uso morigerato del più lecito dei piaceri. Beninteso, dopo una breve prece prima del pasto per rendere grazie dell’aver soddisfatto il desiderio di cibo, e ricordando dopo il termine della mensa di recitare una formula di ringraziamento per averci saziati, mentre si raccolgono gli avanzi che i domestici mettono via per gli indigenti.”

“Lodevole abitudine raccogliere quanto è avanzato, come fecero i discepoli dopo la moltiplicazione dei pani. Trovo molto interessante questo rapporto con la mensa e il cibo attraverso l’educazione…” Dichiara con spontanea immediatezza l’inviato del Circolo.

“Forse un po’ farisaico…” Osserva autocritico l’interlocutore.

“Da noi solo la famiglia reale ha una tradizione simile, ma credo sia più legata all’esteriorità di regole introdotte dalla regina Elisabetta per i pranzi di corte, allo scopo di fare colpo su monarchi e diplomatici delle altre potenze europee, che a interesse per cibo e rituali annessi.”

“In ogni caso, ora qui vi sarà pane raffermo, zuppa di prodotti dell’orto del castello, formaggi e forse un po’ di carne salata, all’uso dei frati.”

Giunti nella sala del refettorio, il docente dello Studio napoletano presenta l’ospite a tutti i colleghi e ai frati diaconi addetti alla mensa, imbandita con brocche di maiolica berrettina di Faenza colme d’acqua, una per ciascun commensale, e con una pila di cinque pani tondi schiacciati ogni cinque posti. Prima di accostarsi al lungo tavolo, l’Inglese trae dalla borsa che porta a tracolla una custodia di cuoio inciso con impressioni in oro contenente delle antiche pergamene vergate in gaelico, quale dono dello Studio di Oxford allo Studio di Napoli, e poi, dopo aver cercato con lo sguardo il priore, averlo identificato e raggiunto, gli porge una piccola e preziosa pergamena miniata, recante un Pater Noster dal Vangelo di Matteo in latino, tracciato con elegante grafia in scriptio continua quadra, nella tinta suggestiva di un antichissimo inchiostro reso cangiante dal tempo. Mentre l’anziano frate, commosso e grato, prende delicatamente tra le dita il sottile foglio trattato col metodo anticamente usato a Pergamo, l’inviato del Circolo oxfordiano specifica:

“Non si conosce con precisione l’anno in cui sia stata scritta e miniata. Era custodita tra i cimeli del nostro fondatore Roberto Grossatesta. È sicuramente antecedente all’anno mille e sappiamo che viene dall’Italia.”

Dopo i ringraziamenti ed altri convenevoli, seguendo i cenni del capo del priore, ciascuno raggiunge il proprio posto presso la mensa e rimane in piedi in attesa di udire le parole latine che accompagnano il segno della croce e precedono l’Oremus. Pregano avvolti in una luce che viene dall’alto e, come sull’altare delle cattedrali, si smorza progressivamente dopo aver illuminato i volti assorti in preghiera e le mani giunte, fermandosi sulla superficie del tavolo, come il tempo stesso che sembra sospendersi nella pausa breve e intensa di silenzio che segue le ultime parole rivolte a Dio.

Siedono e, per un po’, non si sente altro che i piccoli rumori involontari di un desinare discreto e misurato, fino a quando il decano dello Studio di Napoli si rivolge all’ospite di Oxford:

“Desidero chiedere venia, a nome di tutto il consesso che rappresento, al nostro illustre collega inglese, per non aver potuto allestire e offrire in suo onore il banchetto celebrativo che meritava la circostanza della sua visita, ma a causa di questa tragica epidemia di peste, che devasta i corpi e scuote le anime, siamo ridotti nello stato in cui ci vede.”

“Considero un onore e un privilegio sedere al vostro desco, e vi sono vieppiù grato in questa dura prova cui siete sottoposti, per aver voluto dedicare tempo e attenzione a un pellegrino venuto di lontano, che non ha certo il lustro e la fama dei maggiori che voi conoscete del nostro Studio, ed è venuto qui col solo proposito di farsi umile allievo della vostra scienza, della vostra saggezza, del vostro consiglio. Per parte mia, vi darò conto degli ultimi approdi delle menti più brillanti del nostro Circolo.” Risponde l’Oxoniano con sincero trasporto ma rivelando – per l’immediatezza con la quale esprime in parole così formalmente corrette e allo stesso tempo essenziali un pensiero compiuto – di aver preparato in anticipo quanto aveva appena detto, come incipit di un discorso. E questo non meraviglia, considerato che si aspettava di essere ricevuto al Palazzo dei Regi Studi per parlare in un’aula universitaria.

Il decano riprende: “Ringraziando a mia volta per le parole di stima che ci rivolge, le dico con franchezza che la fiducia che ripone in noi è eccessiva e, se mai potrà trarre consiglio da noi, questo sarà per le virtù del suo acume, della sua sagacia e della sua prudenza, che le consentiranno di riconoscere quell’esile radice di sapienza cristiana che permane nel nostro avviso, a dispetto della nostra pervicace e diuturna compromissione col mondo. A proposito della nostra parca mensa, le dico che i frati ci hanno insegnato un esercizio: nello spartirci e addentare pane e cacio, provare a immaginare le pietanze più gustose e prelibate, descrivendone l’aspetto e la fattura…”

“È simile agli esercizi di continenza alimentare di ascetici e stoici.” Osserva l’Inglese.

“Sì, ma noi – spiega un docente di matematica – ne facciamo un’occasione per scambiarci le migliori ricette di cucina. Ad esempio, Alberigo Acciaiuoli che viene da Firenze ci ha insegnato una carbonata da farsi con fette di pane grosse un dito, lardate con prosciutto fine, messe a friggere, e poi cosparse con un elisir di vino, spezie e aceto.”[19]

“Si tratta di una ricetta che proviene dall’Epulario.” Precisa il nostro professore rivolgendosi all’ospite inglese.”

“Cos’è l’Epulario?” Chiede questi.

“Un famoso libro di cucina scritto da Giovanni del Turco nel 1602, nel quale ha raccolto le 166 ricette più richieste della cucina fiorentina, e fino allora tenute segrete, per preparare «carne, pesce et ova»[20]. Dico bene?” Fa il professore rivolgendosi all’Acciaiuoli, che interviene:

“Certamente. Nel 1636 scrisse anche due compendi minori, sotto il titolo di Segreti vari: il primo era dedicato alla pasticceria, il secondo alla confetteria. Anche qui a Napoli sono molto apprezzate le ricette dei confetti, particolarmente quelli dorati e argentati. Giovanni del Turco era un musicista virtuoso della corte di Cosimo II, membro della Camerata de’ Bardi, come Vincenzio Galilei, e dunque tra gli ideatori del melodramma, consigliere dell’Arte dei Medici e degli Speziali, e convinto assertore della nobiltà e superiorità delle tradizioni culinarie italiane antiche. Per questo nelle sue ricette non compaiono pomodori, fagioli, patate, mais, cacao…”

“Immagino che manchino anche peperoni, peperoncini, zucca e tutto quanto è venuto dall’America…” interrompe l’Inglese.

“Si, perché Giovanni del Turco raccoglieva ricette storiche che risalivano a prima della scoperta del nuovo continente. Agli inizi del nostro secolo sono stati pubblicati moltissimi libri di cucina, ma la tradizione è molto più antica. La questione è che fino al Rinascimento le ricette erano legate a un vincolo assoluto di segretezza, e nessuno pubblicava libri per rivelare i segreti che avrebbero assicurato prosperità e benessere ai propri discendenti. Lo avevano fatto gli antichi come Apicio, il celebre Marco Gavio Apicio, lo scrittore gastronomo, che sembra sia vissuto proprio all’epoca di Nostro Signore. Infatti, si vuole che all’epoca di Tiberio, nel 30 d.C., abbia raccolto oltre 500 ricette di cucina.” Spiega l’altro.

“Apicio è l’autore del De re coquinaria, l’opera più importante sulla cucina dell’antica Roma?” Chiede il Napoletano al Fiorentino, che gli risponde:

“Il De re coquinaria è una raccolta in dieci libri che contiene le ricette di Apicio, ma è di molto posteriore, forse del III o IV secolo d.C., e non sembra opera di uno scrittore, ma di un cuoco frettoloso…”

“Caro collega di Oxford – interviene il decano molto divertito – questi signori sono biblioteche viventi di quest’arte. E meno mangiano, più se ne ricordano!”

“Messi, lo conosci?” Riprende Alberigo Acciaiuoli.

“Messi? Chi è?” Chiede l’ospite.

“Cristoforo Messisburgo o Messisbugo. So che voi lo chiamate «Messi» in Inghilterra, e da noi è detto «Sbugo». Lui scrisse Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale, diviso in tre parti: nella prima si descrivono gli utensili da cucina, nella seconda i menu e nella terza si insegna a fare ogni sorta di vivanda. Dopo Martino de Rubeis, Bartolomeo Sacchi detto Platina, venne lo Sbugo che raccolse le ricette di questi altri valenti gentiluomini e, dopo di lui, Scappi e Romoli detto «Panonto»[21]. Ecco, Giovanni del Turco prese da tutti questi.” Conclude il Fiorentino.

“Io ho un indice accurato delle ricette dello Scappi, del Romoli e del Messi; mi sbaglio o l’autore è sempre il del Turco?” Domanda il nostro professore.

“Non ti sbagli, è lui!” Risponde quasi entusiasta l’Acciaiuoli. E poi, rivolto all’ospite: “Bisogna che noi ti si spieghi cos’hanno di speciale codeste ricette: vedi, se tu le leggi – e noi te ne daremo una copia – puoi diventare un maestro d’arte coquinaria impareggiabile, perché ti conducono per mano nella preparazione, vi sono indicate le dosi con una precisione tale che nemmeno un consumato speziale potrebbe far di meglio e, soprattutto, sono specificati i tempi di durata di ogni cottura, così che solo se ti va in frantumi il vetro della clessidra puoi sbagliare!”

“Oh, comprendo!” Si compenetra l’Inglese.

“E come se la cava tra braci e fornelli il nostro ospite d’oltremanica?” Interviene il decano.

“Per la verità, a Oxford sono preso tra Lord che ritengono la cucina un affare per sguatteri e massaie poco adatto a gentiluomini addottorati, e alti prelati che fanno severe reprimende a chi si compiace della buona tavola. Dunque, per rompere il digiuno al mattino[22] mangio un paio d’uova e del trancio di maiale salato e affumicato o, in alternativa, cacio come il vostro ma sicuramente meno buono di questo.” Spiega l’Inglese.

“Allora si sta annoiando con questi discorsi?” Fa il decano.

“Al contrario. Trovo tutto interessantissimo! In Italia sento che uomini d’alta cultura scrivono di cucina da secoli, e questo mi sembra affascinante.”

“Ma il Circolo di Oxford non disputa certo di questo, mi pare di capire – incalza il decano e, leggendo nella mimica facciale dell’interlocutore un assenso sorridente, lo interroga direttamente – e, dunque, quali sono gli argomenti e i protagonisti di maggiore attualità da voi?”

“Vari.” Risponde l’Inglese, prendendo un po’ di tempo con una pausa, e poi, dopo aver rapidamente ponderato e scelto il modo più opportuno e l’argomento più adatto da comunicare, riprende: “Ciascuno di noi ha i suoi preferiti, sia per gli argomenti sia per i colleghi, ma io eleggo al primo posto Robert Boyle: un medico di grande profondità spirituale che sta proponendo al mondo la chimica, come nuova scienza della materia da porre accanto alla fisica, ma che ha metodi suoi propri, derivati dall’alchimia, e scopi in parte nuovi, inusitati e meravigliosi.”

“Sono già curioso di conoscere la scienza e la persona!” Esclama il decano.

“Boyle – riprende l’Inglese – ha appreso da George Starkey e altri alchimisti che gli atomi, come costituenti ultimi e indivisibili della materia, sono un’ipotesi scientifica e non una semplice postulazione speculativa come quelle di Leucippo, Democrito ed Epicuro, e sulla loro esistenza si possono sviluppare esperimenti per giungere a conoscere la natura della materia.”

“Ecco, illustri colleghi, questa è musica per le mie orecchie e pane per i vostri denti! Non come si cuociono le barbabietole e come si friggono le ova! Hai inteso tu, Acciaiouli?” Tuona entusiasta il decano.

“Ho inteso!” Risponde il Fiorentino, e poi prosegue: “Per la verità, io ho letto molte cose misteriose e strane sull’alchimia, particolarmente quella che viene dall’America, e mi sembra che la scienza e la fede abbiano in comune con l’alchimia meno di quanto ne abbia un bel fiore con un cavolfiore! Pensate che Paracelso aveva predetto che sarebbe venuto al mondo un profeta-alchimista che avrebbe cambiato le sorti dell’umanità, e nella regione americana detta New England si sostiene che la profezia si sia avverata con l’avvento di un uomo, manco a dirlo un alchimista, che sostiene di poter far nascere nuove pesche da un pesco rinsecchito e far spuntare in un’anziana donna sdentata nuovi denti come fosse una bambina!”[23]

“L’ho sentito, si, l’alchimista americano si chiama Eirenaeus Philalethes.” Dice un frate.

“Bravo, proprio così si chiama: Eirenaeus Philalethes.” Spiega Alberigo Acciaiuoli, anche se poi si affretta a specificare: “Ho letto anche che la maggior parte degli Americani ritiene Eirenaeus un araldo, un nunzio del profeta-alchimista ancora da venire.”

“Cosa più importante, a mio avviso, è che George Starkey sembra abbia preso le sue ricette alchemiche proprio da Eirenaeus Philalethes: pare che questo mago abbia affidato dei manoscritti di laboratorio a Starkey per farli pubblicare. Se questo è vero, temo che si possa essere autorizzati a nutrire più di un dubbio sul valore scientifico del lavoro di Starkey”. Spiega preoccupato il nostro professore napoletano.

Allora il decano, che vede l’inviato di Oxford volgere il capo a destra e a manca per seguire silenzioso e attento ma quasi divertito chi prende la parola, gli fa, fissandolo negli occhi: “Si vuole un responso su queste opinioni che gettano un’ombra indiretta su Boyle e la sua chimica!”

“È presto detto.” Annuncia l’Inglese con l’aria sorniona di chi la sa lunga.

“Pendiamo dalle tue labbra!” Esclama il professore napoletano a nome di tutti. E il più giovane accademico di Oxford, con serafica soddisfazione, dichiara:

“Eirenaeus Philalethes non esiste!” E subito dopo: “George Starkey ha inventato questo pseudonimo come espediente: avendo condotto e annotato un’enorme quantità di esperimenti basati spesso sulla verifica di credenze, supposizioni e intuizioni – sicuramente commendevoli per difetto di fondamento in un preciso quadro culturale, ma da lui studiate seriamente mediante verifica sperimentale – e volendo far conoscere gli esiti delle sue esperienze, ha finto di aver ottenuto delle carte di laboratorio da questo fantomatico Eirenaeus, così da non compromettere la propria reputazione. Robert Boyle ha selezionato da questa massa di appunti quanto gli pareva degno di essere sottoposto a un vaglio più rigoroso, per verificarne sperimentalmente il valore e, in caso di esito positivo, registrarlo come acquisizione di conoscenza.”

“Ci ha rivelato un mondo!” Commenta il decano.

“Semplici storie di casa nostra.” Minimizza con modestia l’Oxoniano.

“Perdonatemi l’intrusione.” Esordisce il priore e poi, appena ricevuta l’attenzione: “Ho sentito che il dottor Robert Boyle è un medico di grande profondità spirituale, e vorrei conoscere di più di questo aspetto”.

“Con piacere, padre!” Risponde l’Inglese, e prende subito a narrare: “Boyle, per sondare il senso delle Sacre Scritture e fare una buona esegetica per le sue personali esigenze di fede, ha studiato la lingua degli antichi Caldei e la lingua dei Siriani, oltre naturalmente al greco e al latino dei testi che Santa Madre Chiesa custodisce e diffonde da tempo immemorabile. Quando ha percepito una completa conversione del cuore alla dottrina d’amore di Gesù Cristo, ha preso a scrivere alcuni lunghi e articolati saggi di filosofia morale cristiana. Si è poi convinto che la nuova scienza chimica, rivelando la struttura del creato, possa aiutare l’uomo ad apprezzare il lavoro di Dio e, soprattutto, riunendo le menti sui fatti univoci e oggettivi della realtà, possa contribuire a riunire i cuori, guarendo l’Inghilterra dalla malattia della divisione in tante sette religiose.”

“Meraviglioso!” Esclama ammirato il priore, pur se con un basso volume della voce.

“Boyle crede che la scienza possa essere un mezzo per nutrire la fede…”

“Che il Signore lo ascolti e lo aiuti!”

“Boyle sostiene che i fautori delle sette non sono interessati a Gesù Cristo e dice: This multiplicity of religions will end in none at all…”[24]

“Giusto, porteranno all’ateismo.” Concorda il priore. Poi chiede: “E di quelle chimere tipiche degli alchimisti, lui cosa pensa?”

“La pietra filosofale?” Domanda a sua volta l’Anglosassone.

“Per esempio.”

“Se mai esiste, potrebbe consentirci di parlare con gli angeli.”

“Questo Boyle mi piace sempre di più!” Conclude il priore.

Tre frati, appena entrati nel refettorio, si appressano solleciti al desco e uno di loro, posando due grandi fiaschi, annuncia: “Ecco del vino delle vigne dei monaci di Camaldoli, i loro caci alle erbe aromatiche e pane di ramerino all’olio, caldo appena sfornato e fatto con la ricetta di messere Alberigo Acciaiuoli!” E il Fiorentino, sentendosi chiamato in causa: “Suvvia, egregi, onoriamo la buona grazia di questo vitto e del frutto della vite! E poi, al desinare si parla di vivande, di vini e di cucina: avremo tempo e luogo, dopo il calar del sole, con fogli, penne d’oca e calamai per apprendere scienza dal convitato d’Albione.”

“Istanza accolta.” Delibera in tono semiserio il decano.

“Allora avrei io una domanda pertinente per messere Acciaiuoli.” Fa subito l’Oxoniano: “È vero che le ricette antiche erano solo relative a come cuocere i cibi? Immagino che la cucina della Roma antica, poi ereditata nel Medioevo e nel Rinascimento italiano, fosse una cucina molto semplice, con pochi elementi naturali, com’era per gli antichi Ebrei che non usavano nemmeno il lievito per il pane…”

“Al contrario! Nella cucina di Apicio si elencano oltre sessanta fra aromi e spezie e in ogni salsa se ne mettono almeno dieci! La questione fondamentale è il sapore: noi oggi siamo abituati a fare salse di pomodoro e cipolle che costituiscono una base di sapore per tante preparazioni; all’epoca, invece, spesso non avevano neanche il sale, e allora gli aromi erano indispensabili.” Spiega il professore.

“Ma forse il nostro ospite voleva sapere dei primi libri scritti nella lingua di Dante, in italiano…” Ipotizza l’Acciaiuoli.

“Si, vero.” Ammette l’Inglese.

“Il primo manoscritto fiorentino è un tesoretto d’arte calligrafica del 1338 intitolato Modo di cucinare et fare buone vivande, che posso mostrarti se vieni a Firenze, dove è gelosamente custodito in una biblioteca fondata non molto tempo fa da Riccardo Riccardi[25]. È anonimo, perché sono andate perdute le prime pagine col nome dell’autore.”

“E cosa mangiavano a quel tempo?”

“Ti dico subito, anche perché molti dei piatti d’allora sono ancora oggi della cucina fiorentina e, in fede mia, lo saranno fino a quando vi sarà gente al mondo! Lasagne, ravioli, tortelli, timballi, pastelli e pasticci in crosta, che noi oggi si chiama «coppi», e sono molto apprezzati qui a Napoli, città con la quale, da quando il re Roberto d’Angiò è venuto a governare Firenze, gli scambi sono intensi di cibo e cultura. Giotto, Petrarca e Boccaccio hanno dimorato nel Castel Nuovo di Napoli e apprezzato la magnifica cucina di qui, ma anche portato tanti piatti in uso da noi, come l’arrosto di gru. E sì, perché già nel Trecento il piatto forte erano gli arrosti di anatre, oche, capponi, pavoni, e tanti altri volatili; e l’agnello: già al tempo di Dante si faceva la spalla di castrone stufata e poi la gualdaffa o caldume, ottima d’inverno. Sapete cos’era? Il brodo di trippa bollente, sempre molto speziato…”

“A Napoli di carni speziate se ne fa con cento aromi!” Interrompe il professore napoletano.

“Sfido, col caldo e il bel tempo che c’è qui!” Fa il Britannico.

“Cosa ha a che fare il caldo con le spezie?” Chiede sinceramente stupito il Partenopeo.

“Più è calda la temperatura dell’aria, prima la carne dà cattivo odore e deve essere assolutamente speziata. Da noi, in Inghilterra, il problema c’è solo d’estate per i quarti di bue, perché dall’autunno alla primavera successiva la temperatura consente di conservare le carni molti giorni senza che vadano a male. So qualcosa della carne perché gradisco le buone bistecche. E allora, Acciaiuoli, continua il tuo resoconto, ma prima dimmi quali erano le spezie della prima cucina italiana.” Chiede l’Oxoniano.

“Zafferano, noce moscata, pepe, cardamomo, comino, zenzero, coriandolo e, infine, cannella e chiodi di garofano che loro mettevano dappertutto.” Elenca il Toscano.

“Più sento di queste cose – dice il Partenopeo – più mi convinco che gli antichi libri di cucina erano concepiti per sovrani, potenti e ricchi che li volevano imitare…”

“Stavo pensando la stessa cosa.” Dice l’Inglese, e prosegue: “Erano scritti da uomini di cultura ed elencavano un ampio spettro di carni di animali tanto diversi, dalla cacciagione alle specie d’allevamento, dunque nulla che sia alla portata del popolo…”

“Nel Trecento sono le spezie l’elemento chiave, in quanto simbolo di potenza e ricchezza: una sola noce moscata costava quanto sette buoi![26]” Spiega il professore di Napoli.

“Unbelievable!” Esclama l’Oxfordiano e poi: “E per il sea food, pesci e molluschi, avevano già delle ricette?”

“Certamente – risponde l’Acciaiuoli – le avevano per lamprede, anguille, tinche, vari altri pesci di fiume e gamberi d’acqua dolce. Il branzino era già cotto arrosto o al vapore, poi diventa il pesce preferito dei Fiorentini e lo troviamo anche nel Diario di Pontormo. I molluschi con più ricette sono polpi, seppie e calamari. Ma qui bisogna dire che i rapporti con Napoli sono stati di fondamentale importanza, perché dai lidi della ninfa Partenope sono venute tre chiavi di volta per cucinare i molluschi: la prima consiste nel sostituire una parte dell’acqua che contengono con l’olio d’oliva mediante la cottura, la seconda nel vincere i loro grassi con l’aglio e la terza nel dar loro aroma con succo di limone e foglie di una pianta di origine greca, che a Napoli si chiama petrosino[27], con un termine derivato dal greco petroselinon, parola che viene da petra, che sta per pietra, e selinon, che vuol dire sedano: un sedano che cresce sulle pietre, secondo l’identificazione antichissima come ‘quella pianta che cresce sulle rocce delle rupi della Macedonia e assomiglia al sedano’…”

“Non l’ho mai vista né sentita, questa pianta…” Interrompe l’inviato.

“Per forza: teme il freddo ed è propria dei paesi caldi.” Interviene il Napoletano.

“In breve: i molluschi erano cucinati con aglio, olio e prezzemolo.” Sintetizza il Toscano.

“E, dunque, sughi all’olio senza il pomodoro che verrà dall’America.” Conclude l’Inglese.

“Esattamente.” Conferma il professore napoletano, che poi aggiunge: “Qui a Napoli, conservando la base di aglio e olio, sono stati introdotti i pomodori dal secolo scorso, e si fanno sughi di seppie, polpi e calamari da far resuscitare i morti, per dirla con gli antichi Romani. Caravaggio, per mangiare queste delizie, andava alla taverna della locanda del Cerriglio, nel vicolo più stretto e lungo di Napoli. Conoscendo questa sua abitudine, e approfittando degli spazi strettissimi che non consentivano la fuga, una sera del 1609 quattro aggressori lo assalirono e lo malmenarono, lasciandolo malconcio.”[28]

“Povero Caravaggio, per la debolezza della gola si era reso facilmente reperibile!” Osserva sorridendo l’Inglese, ma poi con tono serioso riprende: “Sto ancora pensando al costo delle spezie e ai libri di cucina… I ricchi hanno da sempre fatto cultura dalla soddisfazione di un bisogno primario per la sopravvivenza, mentre i poveri, che non riescono a far fronte nemmeno alle necessità più elementari, rimangono alla fame, perché a volte mancano anche del proverbiale tozzo di pane.”

“La cultura infatti – riflette il decano – non si occupa solo di istanze ideali. Non è forse cultura la scienza, che studia la costituzione materiale di ogni cosa e ne esplora i fenomeni e le leggi?”

“Senza alcun dubbio. Infatti, il mio problema non è che si faccia cultura con le ricette di cucina, ma che si ignori il bisogno dei fratelli. Se in Italia nel Trecento una noce moscata costava come sette buoi, un ricco rinunciandovi avrebbe potuto salvare dalla povertà sette famiglie. E oggi, forse, se tutti i ricchi rinunciassero per un anno alle spezie del cibo non vi sarebbero più poveri in giro. O esagero?” Chiede l’Inglese. E gli risponde il priore:

“Lodevole osservazione. Dovrebbe essere sempre presente alla mente di tutti, che il proprio superfluo non dovrebbe venire prima di ciò che è necessario per il fratello. Ma credo che neanche l’altro aspetto debba essere trascurato. Voglio dire, circa cosa sia o debba essere la cultura di un popolo. Al tempo dei pagani, ogni cosa che fosse elaborata ad arte, da un abile realizzatore, un areté, poteva considerarsi cultura, perché degna di essere trasmessa. Non è così per noi cristiani: la vera cultura per noi è conoscenza radicata nell’esperienza spirituale, e la sua trasmissione dovrebbe contribuire ad edificare l’uomo, nella consapevolezza che l’identità di ciascuno si compie soltanto in Gesù Cristo.”

Noi ci allontaniamo un poco dalla mensa, come facendo una breve rotazione in uscita di un obiettivo zoom da ripresa cinematografica, lasciando i commensali al loro conversare, mentre avvertiamo l’abbassarsi del volume delle loro voci, che ci facilita nell’ascolto della voce del nostro pensiero, intento a fare osservazioni su di loro e sintetizzare un’altra ora della loro interazione sociale. La magia di un contesto comunicativo come quello è data dal fatto che stati d’animo profondamente diversi rimangono ugualmente sospesi nelle loro peculiarità affettive, consentendo la condivisione di uno stile dell’agire cosciente delle menti al servizio di una dimensione comune che riesce a temperare, attraverso l’attualità dello scambio di conoscenza mediato dalla parola, le espressioni più aspre, acute e intense di quelle risposte emotive interiori che, lasciate espandersi nella solitudine, possono giungere fino ai gradi più radicalmente distruttivi della serenità razionale e del senso di identità.

Mentre la conversazione prende il verso della ricostruzione storica dell’evoluzione degli utensili di cucina e delle posate, e poi dell’origine della tradizione dei cuochi francesi[29], alla coscienza di ciascuno dei commensali si affacciano le personali priorità di pensiero.

Il decano pensa che si debba assolutamente cogliere l’occasione di questa visita di un membro del Circolo di Oxford per avviare stabili rapporti di collaborazione e scambio soprattutto fra i membri delle arti del quadrivio, perché è convinto che tali sinergie possano far procedere il cammino della conoscenza con un passo molto più spedito.

Il priore pensa che si dovrebbero mandare in missione in Inghilterra dei religiosi a sostegno dei fratelli di fede cattolici, ormai circondati da anglicani e protestanti di numerose sette, anche se non è ancora edotto della gravità della situazione, e in particolare della mozione parlamentare per l’abolizione delle università cattoliche di Oxford e Cambridge.

Per parte sua l’inviato del Circolo, che non vede l’ora di riprendere l’ascolto del racconto della rivolta del 1647 sospeso all’episodio dello svenimento di Masaniello, si chiede le ragioni di quella esposizione così dettagliata di fatti avvenuti nove anni prima, e ne deduce che siano connessi con un’attualità importante per lo Studio di Napoli e, forse, per tutta la città. E, seguendo questo filo ipotetico, si chiede cosa si aspetti da lui l’abile narratore dell’insurrezione, giungendo a sperare che non si tratti di una presa di posizione politica per conto del Circolo di Oxford contro nemici sconosciuti, lontani e poco decifrabili nelle intenzioni. E poi, mentre sentiva dire che i coltelli ora avevano la punta arrotondata perché ormai si usavano le forchette a tre rebbi e che lo “scalco” o “trinciante” che serviva il banchetto in Italia prendeva il pezzo di carne arrostito con un grosso bidente, lo sollevava in aria e con un tagliente sezionava veloce e sicuro le fette che faceva cadere direttamente nel piatto dei commensali[30], pensava quanto fossero diversi gli Italiani dallo stereotipo imperante in Inghilterra di asceti immersi nel concepire opere d’arte, imprese di navigazione o un’apostolica santità di vita.

Il professore dello Studio di Napoli ha la sua tensione ideativa particolarmente rivolta al momento in cui potrà riprendere la narrazione. Vuol far bene intendere che la sommossa di Masaniello non è stata la rivolta di un popolo di schiavi che ha lasciato il padrone spagnolo per poi finire dopo qualche anno al servizio di quello francese, ma la riconquista di libertà e dignità di un popolo di ingegni, nutrito di antica cultura, reso prudente dalla navigazione, astuto e paziente dalla pesca, istruito dai viaggi, anche se oppresso da un ceto di sfruttatori aduso a considerare i privilegi feudali e i barbari arbitri di alta e bassa giustizia quale diritto divino. Il professore dello Studio di Napoli vuole smentire la versione diffusa all’estero dalle fonti vicereali degli eventi del 1647 e spiegare che non si è trattato di una ribellione di lazzari e altri straccioni contro il viceré e il ceto nobiliare, ma di un ampio movimento diretto contro il malgoverno di una cricca al potere; una mobilitazione popolare basata su ragioni sacrosante alla quale aveva aderito la maggior parte del clero e dei borghesi, alcuni alti nobili e molti signori. In seno a questo movimento – che Masaniello era riuscito con carisma e abilità a tenere insieme – la vera divisione era tra coloro che volevano usare a oltranza i mezzi della diplomazia, come lo stesso Filomarino, e quelli ormai determinati all’insurrezione armata.

Intanto, si continua a versare vino, non disponendo di calici, nelle capienti brocchette di maiolica berrettina. L’inviato di Oxford ha avuto un bel da fare a spiegare che in vita sua non ha mai bevuto vino o altri alcoolici, tranne un assaggio di cherry alla sua festa di laurea, ma nessuno pare l’abbia udito o inteso, e tutti hanno insistito che bevesse, ricordandogli che anche Nostro Signore ne beveva. Poi il decano, tenendo in mano la brocchetta colma del profumato rosso camaldolese, si alza assicurandosi di essere imitato da tutti i commensali e prende la parola:

“I Lanzichenecchi, in segno di omaggio alle truppe spagnole, dicevano: lo porto a te, intendendo il saluto, che in tedesco suona bring dir’s, poi alzavano il calice e bevevano augurando salute e lunga vita ai loro committenti; sicché gli Spagnoli ripetevano quanto udito a loro modo: brindis, che noi in italiano diciamo brindisi[31]. E così oggi, con questo bring dir’s che il nostro gradito ospite porterà come novità in Inghilterra, auguriamo a tutti salute e lunga vita! E al membro del Circolo di Oxford auguriamo che possa conseguire tutti gli obiettivi di conoscenza che si prefigge, facendo grande il suo Studio e portando con sé un piccolo ricordo del nostro!”

“Non dimenticherò mai la vostra calorosa accoglienza, e il ricordo della vostra forza d’animo nell’affrontare la prova della pestilenza mi infonderà coraggio quando mi verrà meno la virtù del conforto!” Dichiara sincero l’Inglese, tradendo una certa emozione nella timbrica vocale.

Tutti bevono. Poi ciascuno dei docenti propone un suo brindisi e, infine, riprende la parola il decano:

“Ho appreso con compiacimento dei nobili natali del nostro illustre commensale d’oltremanica; d’altra parte, sebbene anche fra noi la maggior parte proviene da antico lignaggio, si vuole, nel santo intendimento della fondazione di questa universalità del sapere, che sia lo studio a nobilitare l’uomo. Lo studio che abbia, oltre lo scopo immediato della conoscenza, il fine superiore della sapienza: quella somma di virtù che per i greci era la phronesis, un’accorta prudenza di giudizio che assume in sé l’esercizio della metis platonica al più alto grado della ragione, congiunta alla massima espressione della sensibilità morale; e per noi cristiani è la Sofia, ossia un altro nome dello stesso Signore Nostro, Gesù Cristo. Quella santa sapienza o S. Sofia, alla quale i fratelli d’Oriente dedicano tanti templi del nostro culto.”

Dopo una breve pausa, il docente di matematica interviene sulla nobiltà di casata:

“Vi sono due tipi di nobili: quelli veri, nobili d’animo, devoti, magnanimi, generosi, che cercano, amando il prossimo, di farsi perdonare da Dio e dagli uomini di essere nati così ricchi da non dover lavorare e poter contare su rendite e benefici per realizzare la maggior parte dei propri desideri e capricci; e quelli che non sono veri nobili, perché meschini d’animo, ma solo potenti per diritto ereditario e capacità di corruzione: questi non amano e non vogliono essere amati, ma fanno di tutto per essere temuti; non rispettano nessuno e non hanno fiducia nella possibilità che esista il rispetto, perché non credono nei valori ideali, non li riconoscono e attribuiscono anche agli altri questa loro grettezza d’animo, così che preferiscono dominare il prossimo, trattando tutti come fossero sudditi resi inoffensivi dal terrore.”

La condivisione di questa dicotomia si legge sui volti di tanti fra i presenti, ma un docente di diritto è francamente dissenziente:

“No, non è così, se proprio vogliamo ridurre a due tipi i nobili di Napoli, allora io ti dico che quelli perniciosi sono i nobili che continuano a concepirsi come feudatari medievali con diritto di vita o di morte – vitae necisque potestas – su tutti i sottoposti alla loro giurisdizione, e costoro chiamano plebe il popolo e lo trattano come gli Spartani e i Romani trattavano i vinti che non uccidevano, ossia come schiavi. Del resto la parola latina servus ha proprio questa origine: i Romani, a differenza dei barbari che massacravano tutti, risparmiavano i prigionieri, e dicevano loro: ego te servabo, ossia ti conservo, e dunque i nemici vinti in guerra erano denominati servi. A Sparta, per un periodo, i cittadini dei popoli sconfitti diventavano iloti, classe infima di schiavi. L’arbitrio tirannico e disumano dei peggiori feudatari della nostra terra non ha giustificazione alcuna, perché si esercita sui propri concittadini, non sul popolo in armi che ti ha mosso guerra e tu hai vinto. Poi c’è un secondo tipo di nobili, in cui tu faresti rientrare tutti gli altri; ma, se tu li conosci, noti bene che ciascuno è fatto a suo modo, ed è difficile a Napoli trovarne due uguali!”

A questo punto l’Inglese, reso più spontaneo dal rosso camaldolese, trova un esempio che accomuna i due prototipi negativi proposti:

“In ogni caso, sia il tipo di nobile che vuole essere temuto sia quello che si comporta da feudatario tiranno mi sembrano il ritratto del Mustaccio, come si chiama? Diomede V Carafa, duca di Maddaloni, è vero?”

Il professore napoletano sbianca e, in un istante, prima fulmina con lo sguardo l’ospite alzando le sopracciglia e mimandogli un’espressione che universalmente significa: non avresti mai dovuto dirlo, e poi si affretta a spiegare ai commensali:

“Il nostro illustre e gradito ospite di Oxford ha avuto la cortesia di ascoltare un mio racconto sulle vicende della nostra città, un racconto che non ho avuto il tempo di completare, e affrettandomi nel menzionare tante persone, devo avere involontariamente generato in lui una qualche confusione, così che ora ha fatto per errore il nome di un gentiluomo che non risponde certo ai connotati dei due esempi negativi che sono stati proposti. Mi scuso a suo nome e per mio conto, in quanto avrei dovuto astenermi dal fare nomi in un racconto che non ero in grado di condurre a termine con l’ordine, la precisione e il tempo necessari.”

“Scuse accettate – risponde a nome di tutti un docente di teologia della famiglia Carafa, che poi con tono inquisitorio riprende – Ma che racconto era? Mi auguro che non fosse la narrazione dei fatti della sciagurata sommossa di circa un decennio fa!”

“Certo che non lo era – mente il nostro professore, marcando la prosodia ossequiosa di un tono sottilmente canzonatorio, e poi, per lasciare intendere di voler stare al gioco della sottomissione per non turbare la pace dei frati e non coinvolgere un ignaro ospite di riguardo in una controversia per divergenze politiche e morali, scandisce con solennità recitativa – Me ne sarei guardato bene: è stata una vicenda così confusa e dolorosa per noi Napoletani, che rimane sempre difficile da rievocare e quasi impossibile da raccontare… Dico bene?”

“Benissimo!” si affretta a rispondere un docente di musica.

“Dice bene – spiega il Carafa – perché il nostro illustre collega è nobile, e un nobile sa sempre quel che dice, e sa come dirlo, quando dirlo e perché dirlo. Vero? Perché un nobile, degno del suo titolo, non perde mai la testa.” E, così dicendo, guarda dritto negli occhi il nostro professore che, ricambiando l’occhiata con fredda durezza, finge di proseguire con lo stesso tono il discorso del rivale:

“Ed è un bene per lui e per gli altri! Perché, se lui perde la testa per qualche istante, a chi gli sta intorno la farà perdere per sempre.” E il professore, con gran turbamento e preoccupazione del suo ospite giunto da Oxford, porta involontariamente sotto il tavolo la mano destra all’elsa della spada. Un movimento che non sfugge al priore, il quale con voce bassa e pacata ma con tono d’autorità osserva:

“È cosa buona non condur seco armi di sorta, quando si concorra a mensa per ringraziare il Signore di averci preservati dal morbo e sfamati col pane quotidiano.”

“Noi allo Studio di Oxford non portiamo armi.” Precisa l’Inglese.

“Anche noi allo Studio di Napoli.” Si affretta a dire con imbarazzo il professore, tentando una giustificazione: “Trasferiti qui in fretta e furia per sfuggire al contagio facciamo un omnia mea mecum porto, come diceva Cicerone!”

“Per la verità – osserva il priore – la frase latina è attribuita da Cicerone a Biante di Priene, uno dei sette sapienti[32], e la si trova in cinici e scettici e, in lingua greca, in molti filosofi ellenici antichi; ma non vuol dire che si portano indosso tutti i propri oggetti, beni e averi materiali, ma che tutto ciò di cui si dispone sono le doti dello spirito e dell’intelletto!”

“Come San Francesco.” Esemplifica il professore partenopeo, per mostrare di aver capito, mentre sembra essersi rasserenato.

L’inviato del Circolo, dopo aver espresso con la mimica facciale il suo rammarico e le sue scuse all’interlocutore preferenziale e già quasi amico, e averne ottenuto in risposta un rassicurante sorriso, si rivolge al decano:

“Sono qui per chiedere consiglio e aiuto morale circa il modo di comportarci a Oxford, ora che siamo circondati da anglicani, protestanti, puritani e membri di varie altre sette che tentano in ogni modo di delegittimarci e isolarci. Se dopo, quando saremo in sala biblioteca, avrete la bontà di ascoltarmi vi esporrò le tesi che il nostro celebrato filosofo Thomas Hobbes sta usando contro di noi, e prime fra tutte quella che lui riesce a far risalire a San Paolo, secondo cui la fede viene dall’udire – e lui dice – udire i nostri pastori legittimi[33], ossia gli anglicani. In tal modo, il nostro Studio sarebbe di ostacolo alla diffusione della fede.”

Interviene il nostro professore napoletano: “Dopo pondereremo le tesi e studieremo insieme le risposte. Intanto, si dovrebbe concepire una strategia per resistere all’assedio, a questo accerchiamento.”

Il decano dello Studio napoletano: “Possiamo trarre esempio dall’unica città che ha nome d’uomo, Paris, e dedicata dal suo antico popolo al leggendario eroe greco che rapì la principessa Elena causando la guerra di Troia, durante la quale uccise Achille, l’uccisore di Ettore, e infine fu ucciso da Filottete, ma non mi riferisco a questa storia…”

Lo interrompe il filologo dello Studio: “Ma Parigi, Paris, non è nome derivato dalla locuzione latina Civitas Parisiorum con la quale gli antichi Romani denominarono il grande centro detto Lutezia o Lutece dai Galli?”

Intervenendo il grecista ed etimologista dello Studio, spiega: “Si, ma il nome dei Parisi veniva da Paris, Paride, e il nome greco della città era più antico di quello dato dai Galli, come si legge nel Romanzo di Troia scritto da Benoît de Sainte-Maure nel XII secolo, mentre Lutèce, che noi diciamo Lutetia alla latina, indicava originariamente quella parte di terreno resa fertile dalla Senna per il fango che lasciava dopo le piene, e viene da un nome dato dai Celti. Infatti, la radice celtica luto- compone i nomi che designano il fango e la palude[34]. La scelta del nome ellenico viene dall’influenza culturale greca giunta in qualche modo fino lì, come si vede e si deduce dalle monete dei Parisi del I secolo a.C., e si comprende anche dal fatto che Cesare la chiama Lutetia Parisiorum, mentre la popolazione locale era detta Kwarisi nella lingua gallica[35]…”

Il decano: “Perdonatemi se interrompo la dotta disquisizione che ha interrotto, a sua volta, quanto stavo dicendo, ma desidero riprendere il filo. L’esempio voleva essere questo: una città dalle profonde radici pagane dove, nonostante tutto, è stata fondata la facoltà teologica dalla quale San Tommaso d’Aquino, prima di tornare a Napoli, ha irradiato i principi della teologia cristiana in tutta Europa”.

E il nostro professore: “E come fecero San Tommaso e gli altri?”

Sorridendo, il decano: “Non ponendosi mai come interlocutori o contraddittori dei pagani, ma annunciando la Buona Novella come novità assoluta portata dal Cielo a tutti coloro che sono pronti a riceverla, senza occuparsi di dar conto ad altri fuori che a Dio e ai fratelli.”

E il professore: “E tu ritieni e immagini che questi santi andassero per la propria strada, che è la Via di Cristo, la Sua Verità, la nostra Vita, senza mai tener conto dei pagani, ignorandoli?”

E il decano: “Proprio così! Non lo ha detto il Maestro di considerare i fratelli lontani dalla Verità come Gentili o Pubblicani? Io credo che a Oxford debbano adottare gli stessi brani delle scritture usati da Hobbes e gli altri per ribadirne il senso autentico, ma non rivolgendosi a loro, piuttosto proponendo questi argomenti come riflessione pastorale a tutti i cristiani: chi ha orecchie per intendere, intenda.”

“Potrebbe essere una parte della strategia.” Fa meditabondo il professore, e poi: “Devono dar prova, sia pure non rivolgendosi ai loro detrattori, della bontà del loro operato, del fatto che le loro opere non sono meschine miserie del mondo, ma segno dell’amore oblativo divino.”

Allora il decano: “Dobbiamo studiare i modi usati dai nostri antichi fratelli durante le persecuzioni seguite al periodo in cui avevano ottenuto la libertà di culto dall’Imperatore ma erano ancora minoranza. Intendo il periodo di Galerio…”

“Temo di non ricordare bene questo passo di storia…” Fa presente l’Inglese.

“Dunque, si dice che con Diocleziano cessarono le persecuzioni. In realtà, dopo di lui vi fu l’Imperatore Galerio, suo genero in quanto aveva sposato sua figlia Valeria. Galerio promulga l’editto di tolleranza il 30 aprile del 311, col quale si sospende ufficialmente ogni persecuzione, ossia il dare la caccia ai cristiani per torturarli e ucciderli, ma i persecutori di professione non smettono del tutto da un giorno all’altro, e continuano fino all’editto di Milano dell’Imperatore Costantino, che nel 313 proclama la nostra fede religio licita.” Spiega il decano.

“Costantino lo conosco bene. Fu proclamato Augusto dai miei connazionali in Inghilterra, a York, città che i Romani chiamavano Eburacum.” Fa l’Inglese, e poi, dopo un breve pausa:

“Da tutto quello che ho sentito, ho capito una cosa molto importante: una parte evidente della vostra forza risiede nella conoscenza della storia e nel suo uso che genera sulla coscienza l’effetto di un sapere che ci ha preceduto. Quell’ascendente che posseggono su di noi i nostri genitori e gli altri adulti quando siamo fanciulli. Consultare la storia per sapere come fare, dunque, non è solo cercare nel passato i modi e le tecniche per agire, ma è portare lo spirito nel tempo perfetto, nel già compiuto, nella realtà rassicurante dell’esperienza già vissuta, che consente di dominare il presente riconducendolo a certezze note, e non lasciandolo in balìa della forza degli eventi e degli imprevisti.[36]

“Questa acuta osservazione rende anche noi più consapevoli del valore di un nostro costume.” Nota il professore.

Il sopraggiungere di un frate con una enorme ramazza di saggina fa comprendere loro che è tempo di lasciare la sala. In particolare, il Napoletano e l’Oxoniano vanno a visitare l’orto di Castel Sant’Elmo e, dopo, ritornano al loro alloggiamento per riprendere la narrazione dei fatti del 1647 e, in particolare, della vicenda di Masaniello.

 

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-22 gennaio 2022

www.brainmindlife.org

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 



[1] Ascanio Filomarino, Lettera a Papa Innocenzo X del 12 luglio 1647 – copia d’archivio.

[2] I Sedili o Seggi di Napoli erano un’istituzione amministrativa della città cui partecipavano membri scelti per votazione, definiti Eletti, e che si ritiene risalga al V secolo a.C., quando sostituì le fratrie greche. In epoca cristiana gli Eletti si riunivano nella chiesa di San Lorenzo Maggiore per decidere il bene comune e, oltre ai cinque Sedili riservati all’aristocrazia, ve ne era un sesto riservato al popolo. Benedetto Croce lamentava la scomparsa nel Novecento di tutti gli edifici dei Sedili (Cfr. B. Croce, I Seggi di Napoli, in Aneddoti di varia letteratura, pp. 293-301, Vol. I, 1920). Attualmente, in Via Mezzocannone, è visibile il bassorilievo dello stemma e la lapide del Sedile di Porto.

[3] Ferrante Caracciolo, I Commentarii delle Guerre fatte co’ Turchi da D. Giovanni d’Austria, dopo che venne in Italia, Scritti da Ferrante Caracciolo, conte di Biccari (ampio resoconto sulla battaglia di Lepanto) In Fiorenza, MDLXXXI (1581) Appresso Giorgio Marescotti, con licenza de’ Superiori (originale custodito presso la Konigl. Kreisbibliothek in Augsburg, consultabile online sul sito di MDZ – digitalizzazioni in 2D e 3D – BSB, Bayerische Staats Bibliothek).

[4] Per la verità, le fasce alternate dello stemma appaiono più come strisce bianche su campo rosso, così che anche questo aspetto del racconto sembra un’evidente forzatura.

[5] Per approfondire circa l’origine dei feudi dei Carafa: Tommaso Persico, Diomede Carafa e il Regno di Napoli. Firenze 1895. Anche se in molte trattazioni storiche questo cognome è scritto “Sanframondo”, sul pannello dello stemma originale della famiglia nel chiostro di Palazzo Sant’Antonio in Cerreto Sannita, si legge: “Sanframondi”. La famiglia era francese e non longobarda, come dimostrano documenti studiati di recente in cui è riportato l’antico nome Sancto Fraymundo (Pacifico Cofrancesco, Sanframondo conti normanni di Cerreto: il periodo delle origini. Edizioni A.S.M.V., Piedimonte Matese 2013).

[6] Renato Pescitelli, Chiesa Telesina: luoghi di culto, di educazione e di assistenza nel XVI e XVII secolo, p. 53, Ausiliatrix, Benevento 1977.

Un secolo dopo, nel 1737, i Cerretesi si ribellarono ai Carafa, ricorrendo al Sacro Regio Consiglio, per il clima di terrore creato dai loro sgherri. La repressione fu terribile: 120 soldati misero a ferro e fuoco Cerreto, i firmatari del ricorso furono percossi e frustati, e le loro figlie umiliate denudandole in pubblico per accertarne la verginità.

[7] Alla National Library of Scotland è custodito A Gest of Robyn Hode, un manoscritto illustrato del XIV secolo. Per approfondire: Alfred Stapleton, Robin Hood: The Question of His Existence Discussed, More Particularly from a Nottinghamshire Point of view. Sisson & Son 1899; per un’ipotesi originale: John Paul Davis, Robin Hood: The Unknown Templar. Peter Owen Publishers, 2016.

[8] Cfr. Gaetano Moroni Romano, Dizionario di Erudizione Storico-Ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni. Vol. XXXI, p. 62 (alla voce Giovanni XII), Tipografia Emiliana, Venezia 1845. (Ciascuno dei 103 volumi della monumentale opera è consultabile online come e-book gratuito messo a disposizione da “Wikipedia”).

[9] Espressione tipica napoletana (impiegata anche da Antonino Guglielmi nella Cummedia ’e farfariello – volgarizzazione napoletana comica della Divina Commedia) che sta ad indicare un taciturno che si apparta sia per incapacità di socializzare sia per scelta. Spesso i pastori dell’avellinese, giunti a Napoli come zampognari suonatori di novene e rimasti in cerca di fortuna, frastornati dal clamore della città e non conoscendo la lingua napoletana, né il latino parlato dai chierici, lo spagnolo e gli altri idiomi comuni in città, se ne stavano appartati, sentendosi apostrofare immeritatamente “puorche ’e fore morra”, così di frequente da averlo importato nel dialetto avellinese. In realtà, per loro sarebbe stata più appropriata un'altra locuzione del linguaggio figurato partenopeo: “asino ’mmiezze ’e suoni”, ossia frastornati, disorientati e immoti come apparivano gli asini durante la festa di Piedigrotta, per il clamore spesso assordante dei carri allegorici, sui quali si esibivano attori, cantanti e formazioni musicali bandistiche.

[10] Vittorio Gleijeses, op. cit., p. 602.

[11] Da alcuni, incluso Gleijeses, è riportato come Antimo Grassi, ma l’identificazione documentale prevalente è con un bandito dal cognome “Grasso”.

[12] I rivoltosi non avevano un boia e, per questo, incaricarono un macellaio.

[13] A questo proposito, Gleijeses incorre in un errore, infatti scrive: “…confessarono di essere stati assoldati dal duca di Maddaloni. Si diede quindi la caccia al nobiluomo che fu ucciso e decapitato…” (p. 602). Diomede V Carafa non fu affatto ucciso, ma continuò a fare la regia dell’istigazione del popolo contro Masaniello; in seguito acquistò una nuova sfarzosa dimora, compì varie nefandezze, ma sopravvisse anche alla peste. Uccise Giovannangelo Lombardi medico eletto sindaco di Cerreto Sannita e, per lo stesso motivo, cioè aver denunciato i suoi abusi feudali, fece uccidere dal suo sicario Carapella il diacono Francesco Magnati. Antonio Magnati, il fratello, appellandosi al re di Spagna Filippo IV, ottenne che il Carafa fosse recluso, ma questi presto uscì per amnistia dovuta alla nascita dell’erede al trono. Nel 1658 il viceré Castrillo riuscì a farlo arrestare e deportare in Spagna, dove fu confinato a Pamplona. Morì a Madrid nel 1660.

[14] Questa versione è ancora oggi riportata da alcuni, cfr. Vincenzo Mazzacane, Memorie storiche di Cerreto Sannita, p. 71, Liguori, Napoli 1990.

[15] La storia si è rivelata vera, perché in epoca recente degli scavi archeologici condotti nell’area di Materdei hanno portato alla luce cavità destinate ad accogliere defunti, risalenti al III millennio a.C.

[16] Tra il 1588 e il 1615, per impedire l’espansione incontrollata di Napoli, fu vietata l’introduzione in città di materiale da costruzione, allora i Napoletani ripresero ad estrarre il tufo dal sottosuolo come in epoca greca. Durane la II Guerra Mondiale, per salvarsi dai bombardamenti furono allestiti nelle cavità 616 ricoveri: 369 in grotte e 247 anticrollo.

[17] Il dipinto di Micco Spadaro (Domenico Gargiulo) L’uccisione di don Giuseppe Carafa è esposto presso il Museo della Certosa di San Martino al Vomero in Napoli.

[18] Oggi non abbiamo alcuna difficoltà, in assenza di dati documentali circa la presenza di sintomi diacritici di particolari condizioni patologiche, a ipotizzare una lipotimia da stress, ossia una risposta centrale riflessa temporanea e reversibile ben distinta dal collasso cardiocircolatorio e da altre crisi patologiche.

[19] Cfr. Paolo Petroni, Il Libro della Vera Cucina Fiorentina, p. 33, Giunti Editore, Firenze 2012.

[20] Cfr. Paolo Petroni, op. cit., p. 32.

[21] Paolo Petroni, op. cit., pp. 30-32.

[22] Breakfast, in inglese, letteralmente vuol dire rompi o arresta (break) il digiuno (fast).

[23] Cfr. Carl Zimmer, Soul Made Flesh – The Discovery of the Brain and How It Changed the World, p. 136, Free Press (Simon & Schuster), New York 2004.

[24] Questa molteplicità di religioni finirà in nessuna religione del tutto (Boyle cit. in Carl Zimmer, op. cit., p. 135).

[25] Il Modo di cucinare et fare buone vivande è un manoscritto incompleto che corrisponde alla segnatura 1071 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (Palazzo Medici Riccardi, in Via de’ Ginori), comincia dalla pagina 40 e termina con la ricetta del “savore nero”. La Biblioteca Riccardiana è stata fondata all’inizio del 1600 e custodisce una vastissima raccolta di opere mai catalogate, inedite e sconosciute, per cui è facile prevedere che nei prossimi anni si faranno scoperte con un semplice lavoro di ricognizione. Ad esempio, all’interno del Codice Vaglienti (1438-1514) 1910 è stato scoperto il più antico manoscritto di traduzione del Corano in volgare neolatino toscano risalente agli anni 1210-1213; prima di questa scoperta, la più antica traduzione si riteneva fosse quella di Andrea Arrivabene del 1547. Oltre al manoscritto autografo di Machiavelli delle Istorie fiorentine, sono catalogati nella Riccardiana numerosi cimeli di pregio assoluto.

[26] Cfr. Paolo Petroni, op. cit., p. 17.

[27] Nome scientifico Petroselinum crispum, detto anche Petroselinum hortense, e comunemente prezzemolo. Proprio l’origine greca antica indicata dai Napoletani ai Fiorentini diede luogo al detto toscano: “antico come il prezzemolo”. Di più recente origine napoletana è la locuzione “prutusino ogni menesta” per indicare una persona presenzialista che compare in ogni contesto sociale, anche intromettendosi quando non sarebbe il caso. Nel Convivio, Dante lo tiene distinto dal sedano, che chiama appio, come in latino, da cui viene il napoletano moderno accio.

[28] L’aggressione fu dovuta con ogni probabilità a rivalità amorosa e non è da ricondursi alla condanna per l’uccisione di Ranuccio Tommasoni, come creduto in passato. La taverna della locanda del Cerriglio, che esiste ancora, fu celebrata col poema eroico Lo Cerriglio ’Ncantato da Giulio Cesare Cortese (Camillo Cavallo in Napoli 1645 – prima edizione già postuma nel 1628), letterato napoletano, membro dell’Accademia della Crusca e amico di Giambattista Basile, anche lui frequentatore del Cerriglio, che scrive: Trasire a lo Cerriglio è doce.

[29] Tutte le famiglie nobili napoletane di quel periodo e molte famiglie benestanti avevano il cuoco francese o Monsieur, diventato in napoletano “Monsù”, secondo una tradizione ancora seguita da alcuni a Napoli e considerata, soprattutto fino al Novecento, un ambito segno di distinzione. La moda del cuoco francese nel Seicento investe anche Firenze, che era stata il modello culinario per gli apprendisti d’oltralpe, così si danno nomi francesi alle preparazioni fiorentine: la salsa tonnata diventa “toné” e le ricette nostrane rivedute e corrette da veri o falsi chef sono dette “franzose” (Cfr. Paolo Petroni, op. cit., p. 33).

[30] A Firenze le forchette, inizialmente a due rebbi o bidente, si usavano già dal Trecento; in questo periodo erano ormai comuni le forchette a tre rebbi. Le forchette a quattro denti come quelle attuali, inizialmente riservate agli spaghetti, si diffondono dal Settecento. Lo scalco o trinciante fu esportato in Brasile dai Portoghesi e oggi, nelle churrascarie brasiliane tradizionali, si esibisce con una vera e propria picca che trafigge ogni volta tre esemplari dello stesso taglio di carne (inclusa la deliziosa picanha) a tre gradi di cottura (bem passada, mal passada, o ponto) e con un tagliente, a volte a foggia di spada antica, taglia la fetta richiesta facendola cadere nel piatto dei partecipanti al rodizio.

[31] Cfr. Giacomo Devoto, Avviamento all’etimologia italiana, Mondadori, Milano 1979.

[32] I sette sapienti o sette savi (hoi hepta sophoi) sono, secondo Platone, Biante, Pittaco, Solone, Talete, Cleobulo, Chilone e Misone.

[33] Cfr. Thomas Hobbes, Leviatano (2 voll.) II vol., p. 582, Fabbri Editori, Milano 1996. Hobbes trae da San Paolo (Lettera ai Romani 10, 17) che la fede viene dall’udire, ma la usa per affermare l’importanza dei “pastori legittimi”.

[34] Oggi qualcuno ha proposto che l’origine di Lutèce possa essere messa in relazione alla caratteristica di terre paludose di due aree parigine, il quartiere le Marais e la montagna di Saint-Geneviève o Lucotecia, ma in tutti i documenti più antichi si attesta il carattere fertile e prospero dell’area circostante la Senna dove si era formata la città, la cui continua espansione si doveva proprio alle ottime condizioni di vita, molto lontane dall’impraticabilità malsana delle paludi.

[35] Attualmente per lo più translitterato in Quarisi. È interessante notare che le deduzioni storiche finora proposte per l’origine del nome della città e del popolo stesso che la abitava sono state recentemente messe in crisi da studi che hanno combinato i metodi archeologici con quelli dendrocronologici (basati sul conteggio degli anelli di accrescimento annuale degli alberi secondo Andrew Douglass), per studiare i resti legnosi dello strato sotterraneo cittadino più profondo sulla crosta terrestre: l’insediamento dei Galli Parisi risale al IV secolo d.C., ossia 50 anni dopo la conquista romana. La Lutetia romana fu fondata sulla riva sinistra della Senna a monte della confluenza del torrente Bièvre, dove ora sorge il quartiere latino. La città fu letteralmente rifondata dai Franchi, in particolare dalla dinastia dei Merovingi.

[36] L’utilizzo della dimensione storica mediante legame identificativo è uno dei numerosi strumenti psicologici da me introdotti in passato nella pratica psicoterapica. Il soggetto, se riesce a collocare la sua attualità psichica nella dimensione del già vissuto, e per questo del noto e dominabile, può sottrarsi all’ansia che deriva dall’alea di un presente aperto all’imprevedibilità – che diventa quasi “imponderabilità” nell’intensità reattiva della persona già sotto effetto di stress – innalzando molto la soglia di attivazione degli equivalenti umani della fight or flight response, in relazione ai fatti della vita che erano stati automaticamente classificati dall’apparato psichico come allarmanti.