Specchio della psiche e della
civiltà
GIUSEPPE
PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 22 gennaio
2022.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
Prima di leggere
la ventiquattresima parte sarebbe opportuno rileggere la ventitreesima, per
aver presente lo sviluppo della trama dei fatti e il filo delle riflessioni;
tuttavia, per chi voglia subito andare alle pagine nuove, si fornisce qui di
seguito qualche cenno riassuntivo e si riporta l’ultimo frammento di dialogo col
quale mi sono congedato prima della pausa natalizia.
Un inviato del Circolo
di Oxford, in viaggio verso Napoli dove deve recarsi per chiedere supporto
culturale e spirituale ai colleghi universitari, nella traversata in nave
incontra un suo conoscente genovese col quale intrattiene una vivace conversazione
che tocca temi storici, filosofici e teologici. Approdato durante la peste del
1656, è ricevuto da un professore dello Studio di Napoli che lo conduce al
Castel Sant’Elmo, al riparo dal contagio, dove prende a narrargli le vicende del
1647 connesse con la sommossa di Masaniello. La narrazione è giunta al punto in
cui il Cardinale Arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino ha ottenuto che il
viceré Rodrigo Ponce de Leon duca d’Arcos tolga le gabelle motivo della rivolta
e giuri sui capitolati del Privilegio di Carlo V fedeltà al patto col popolo,
come aveva chiesto l’anziano parroco della chiesa del Carmine, don Giulio Genoino,
un giurista che aveva ispirato il moto popolare e sostenuto Masaniello.
Ecco l’ultima pagina
della ventitreesima parte.
“Filomarino
ha agito come un grande diplomatico, ma ha potuto farlo perché alle sue spalle
c’era Genoino, che ha avuto il ruolo di un monarca, sia pure dietro le quinte,
indicando cosa bisognava fare e governando la forza e il potere contrattuale dell’esercito
messo su da Masaniello.”
“Comprendo:
senza Genoino e Masaniello, Filomarino non avrebbe potuto fare molto, e forse
si sarebbe limitato a chiedere senza ottenere nulla.”
“Infatti. Ti
leggo un altro passo da una lettera scritta in quei giorni da Filomarino a Papa
Innocenzo X, in cui dà merito a Masaniello per la felice conclusione degli
accordi e per la definizione del piano politico comune:
La
confidenza e l’osservanza e il rispetto ch’egli ha avuto in me, e l’ubbidienza
che ha mostrato in ordinare e fare eseguire tutte le cose che gli venivano
dette e
suggerite da me, è stato il vero miracolo di Dio in questo arduo negozio: il
quale era altrimenti impossibile di condurre a fine in così poche ore, come si
è fatto, con tanta lode e gloria di Sua Divina Maestà, e della Beatissima Vergine,
che l’hanno guidato, e protetto ed assistito, a me nelle vigilie, fatiche e
diligenze impiegate”[1].
“Si
avverte una profonda spiritualità, che molto raramente ho riscontrato nei
prelati inglesi”.
“Ah,
davvero? Sono lieto che, in questo paradiso di diavoli, almeno un angelo tu
possa incontrarlo.”
“Lo conoscerò
con piacere. Ora mi chiedo, dopo la vittoria del popolo di Masaniello e la pace
fatta col viceré, cosa possa essere accaduto che meriti l’espressione del viso
che hai fatto quando hai detto che quella non era la fine della storia, con un
tono che sembrava alludere che ‘il bello deve ancora venire’?”
“Hai
presente alla mente quel Diomede V Carafa, l’altezzoso e antipatico Mustaccio
che aveva preso a calci Filomarino ed era stato picchiato a sangue per aver
portato a Masaniello un documento falso?”
“Perfettamente!”
“Lo
immagini come uno che porge l’altra guancia?”
“No di
certo!”
“Ecco,
aveva meditato vendetta. Mentre il popolo si accordava col viceré, lui aveva posto
in essere un suo diabolico piano.”
(Ventiquattresima Parte)
49. Nel mondo dei Carafa per
comprendere il piano e un fatto accaduto in chiesa. Gli sviluppi della rivolta si
fermano a un colpo di scena. “Dunque, sono impaziente di sapere come il Carafa Mustaccio si è vendicato
di Masaniello. Anche se è stato violento, questo capo del popolo ha tutta la
mia simpatia, soprattutto perché è stato obbediente al Cardinale Filomarino,
che ormai è il mio eroe.” Sollecita l’inviato del Circolo di Oxford.
“Ecco, per
spiegare cosa abbia fatto il duca di Maddaloni Diomede V Carafa, e come l’abbia
fatto, è necessario conoscere almeno qualcosa della sua realtà e della sua
famiglia.” Introduce il professore dello Studio di Napoli.
“Non
chiedo di meglio.” Lo incoraggia l’interlocutore.
“In città
si dice che la maggior parte delle attività di questo nobile sia materia
delicata e segreta, perché la sua famiglia è legata a molti potentati, come se
fosse una dinastia di sovrani di un regno. Ad esempio, fino a un certo momento
non si sapeva nulla del rapporto che avevano con lo Stato dei Presidi Reali,
ossia uno staterello sorto in Toscana intorno all’Argentario e all’arcipelago
toscano…”
“Lo
conosco – interrompe l’Inglese – perché si è costituito formalmente a Londra,
con un atto firmato nella nostra capitale da Filippo II, ed è legato dinasticamente
a Spagna e Austria.”
“Ah, non
lo sapevo. Quello che so è che Diomede V ne è divenuto il governatore e i Carafa
hanno introdotto, fra le monete riconosciute da questo Stato, il nostro Tarì d’oro,
una moneta napoletana con l’esergo in lingua araba, al fine di facilitare il
commercio con gli Arabi, che proprio lì erano stati combattuti…”
“Si, con
epiche battaglie navali…” integra l’Oxfordiano.
“Comprendi?”
Chiede il Napoletano e, al cenno di assenso del capo dell’altro, prosegue: “I Carafa
sono una nobile e antica famiglia di Napoli nata come ramo dei Caracciolo, le
cui origini si perdono nella Partenope greca; ha più di cento titoli di aristocrazia
storica e, attualmente, con principi, duchi, conti e altri titolati conserva la
signoria come feudi di così tante piccole città, comprese Maddaloni e Cerreto
Sannita, che nessun membro della famiglia conosce il loro elenco completo. Papa
Paolo IV era Gian Pietro Carafa, elevato alla missione vescovile da Giovanni de’
Medici, ossia Papa Leone X…
“Il Papa
fiorentino che fu ritratto da Raffaello.”
“Esattamente.
Gian Pietro Carafa, prima di diventare Papa, era stato a lungo a capo del tribunale
dell’Inquisizione. Quando ascese alla Cattedra di Pietro, come da tradizione,
promulgò il suo motto: Dominus mihi adjutor. Ma i Napoletani lo intesero
a modo loro e dicevano: «Carafa è diventato Papa: Dio mio, aiutami!»”
“Divertente.”
Ride l’Inglese.
“Il
radicamento nelle ottine elleniche è inimmaginabile. I Carafa avevano, attraverso
i Caracciolo, antenati importanti già nella Partenope greca che diventarono
patrizi romani in epoca imperiale; nei secoli hanno tessuto tante trame di
rapporti e parentele con l’aristocrazia europea e del bacino del mediterraneo…”
“Perdona l’interruzione,
ma quella famiglia dalla quale originavano…”
“I
Caracciolo.”
“Si,
quella, mi chiedo quale genealogia riconosciuta avesse il suo lignaggio, e se
oggi è una famiglia amica dei Carafa.”
“Vale per
entrambe le casate dire che oggi sono divise in tanti rami, fra i quali vi sono
membri amici fra loro e membri fra loro nemici. Dunque, il lignaggio dei
Caracciolo? Immagino che tu intenda il conferimento di nobiltà in epoca
cristiana, vero?”
“Precisamente.”
“Nel
nostro Duomo, la Cattedrale Metropolitana dedicata alla Madonna Assunta dove si
venera il patrono San Gennaro, vi sono le spoglie del capostipite Teodoro Caracciolo,
morto l’anno 976, e della moglie Urania; era l’epoca del Ducato di Napoli,
dipendente dall’Esarcato di Ravenna, ossia il governo italiano dell’Impero
Romano d’Oriente, e i Caracciolo ottennero la rappresentanza dei nobili nel
Sedile o Seggio di Capuana[2], presso la piazzetta Capuana di Napoli. Da
allora sono stati protagonisti in tutte le vicende storiche della nostra città.
In epoca più recente, un Caracciolo ha acquisito grande fama per aver narrato
la cronaca dei fatti della Battaglia di Lepanto del 1571: I Commentari
del conte di Biccari e duca di Airola Ferrante Caracciolo, pubblicati nel 1581[3].
“Ci terrei
molto ad averne una copia. Sono sicuro che tutto il Circolo di Oxford sarebbe
entusiasta di leggere la cronaca di quella battaglia che ha salvato l’Europa
cristiana dalla barbara dominazione ottomana. Una vittoria che ha preservato
dalla cancellazione il cristianesimo e tutta la cultura delle nostre antiche
tradizioni.”
“Ti darò
una delle mie copie.”
“Te ne
sarò per sempre grato. In Inghilterra si ricorda la Battaglia di Lepanto come
grande vittoria navale della Lega Santa contro l’Impero Ottomano, ma io non so quali
Stati presero parte alla Lega Santa.”
“Te lo
dico subito! Sai, qui a Napoli è considerata una nostra vittoria e le abbiamo
dedicato una piazza; ecco i membri della Lega Santa: Regno di Napoli, Regno di Sardegna
e Regno di Sicilia – anche in rappresentanza dell’Impero di Spagna – Granducato
di Toscana, Repubblica di Genova, Repubblica di Venezia, Stato Pontificio, Sovrano
Ordine Militare dei Cavalieri di Malta, Ducato di Savoia e Ducato di Urbino.”
“Ora mi è
chiaro: un imponente dispiegamento di forze in realtà tutte italiane. Ma,
perdona la mia interruzione sui Caracciolo, mi stavi dicendo dei Carafa per aiutarmi
a capire il piano concepito da Diomede Carafa contro gli insorti di Masaniello…
sono impaziente di conoscere la prosecuzione della vicenda ma, ti confesso,
allo stesso tempo temo molto che siano accadute cose spiacevoli ai protagonisti
con i quali ho simpatizzato…”
“Sapere
della tua immedesimazione mi lusinga, perché desideravo proprio trasmetterti
almeno un po’ della passione con la quale abbiamo vissuto quelle vicende noi
Napoletani.”
“Ti
ascolto.”
“Ti dicevo
delle trame di rapporti tessute nei secoli dai Carafa che, nelle loro
controversie economiche e rivalità politiche, ricevevano spesso inaspettati
aiuti dall’estero. In tal modo, in molti frangenti si sono resi indipendenti
dall’egemonia cittadina degli stessi Caracciolo e degli altri nobili. All’epoca
in cui stabilirono buoni rapporti con la Repubblica di Pisa, colsero l’opportunità
di matrimoni, amicizie e condivisioni di patrimoni per confabulare e consegnare
al mito popolare una storia sulle origini pisane della loro famiglia. Forse per
emanciparsi definitivamente dal tronco genealogico originale, ripudiandolo: un nobile
pisano dei Sismondi salvò la vita all’Imperatore Enrico IV il quale, mentre il
Toscano si frapponeva fra la lama dell’attentatore e il suo corpo, si vuole che
abbia detto: “Cara fe’ m’è la vostra”. Dunque, Carafa da Cara-fe,
e lo stemma a strisce orizzontali rosse derivato dalle righe di sangue lasciate
sulla corazza del Sismondi dalle dita insanguinate.”[4]
“Storia
falsa, quindi?”
“Del
tutto. A Napoli sanno tutti che Carafa deriva come soprannome da caraffa,
una bottiglia di vetro panciuta usata a tavola per le mescite, ma anche come unità
di misura, perché una caraffa napoletana è sempre 0,727 di un litro, e 60 caraffe
sono un barile. Nessuno sa se il soprannome abbia designato un capostipite
dedito al bere o se sia vera la storia popolare secondo cui un servitore di
tavola, così soprannominato da quel che portava al desco, abbia sposato una
principessa Caracciolo, dando luogo ai Caracciolo-Carafa.”
“Ma prima
mi sembra che tu abbia detto che anche il principe di Roccella è un Carafa, o mi
sbaglio?”
“Si, Roccella
è un ‘Carafa buono’. Ve ne sono. Vi sono santi della nostra Chiesa in quella
famiglia!”
“Complicato.
Per capire: i Carafa si sono inventati un’eroica origine pisana per rompere
definitivamente ogni legame con i Caracciolo, giusto?”
“Si, ma il
Mustaccio ha sposato Antonia Caracciolo!” Esclama divertito il Napoletano.
“La parola
contraddizione esprime il tratto distintivo della famiglia, più dello
stemma.” Nota l’Inglese con un’espressione tra il meravigliato e il sorridente.
“Si dice
che il duca di Maddaloni, Diomede V Carafa detto Mustaccio, finanzi e spesso
gestisca milizie di fuorilegge delle campagne del circondario, che vivono
commettendo reati e soprusi a danno dei contadini, ma sono pronti a porsi al
servizio del miglior offerente come mercenari.”
“Ed è
vero?” Chiede l’ospite.
“Non
proprio, perché in realtà, questi banditi occupano le aree incolte e abbandonate
dei due feudi dei Carafa. Si, perché oltre al feudo di Maddaloni, i Carafa
avevano come contea il feudo di Cerreto Sannita, che era stato fin quasi alla
fine del XV secolo di proprietà della famiglia francese dei Sanframondo o Sanframondi
legata agli Angioini.”[5]
“Gli Angiò
del tempo. Interessante. Un giovane Angiò fu promesso alla regina Elisabetta.”
“Infatti.
Gli Aragonesi, sconfitti gli Angioni, nel 1483 diedero Cerreto Sannita ai
Carafa, i quali si limitarono a ricevere i tributi senza mai recarsi nella
cittadina fino ai nostri giorni, quando Mustaccio decide di esercitare tutti i
diritti di potere del feudatario sul popolo, devoto e obbediente al Vescovo di
Cerreto, che era Sigismondo Gambacorta, un Napoletano fedele ai Sanframondi, che
aveva voluto l’edificazione del Convento di San Francesco nella vicina località
di Guardia Sanframondi…”
“Ah, uno
legato ai Francesi angioini e non agli Spagnoli aragonesi come i Carafa,
giusto?”
“Esatto. Ma
c’è di più. Ti racconto un episodio che ti dà un’idea del tipo di persona che è
Diomede V Carafa: fa sapere agli abitanti di Cerreto Sannita che intende assumere
un ruolo esecutivo attraverso una sorta di pubblica investitura religiosa che
lo presenti e lo consacri come padrone delle terre e delle persone che vi abitano.
Il Vescovo Gambacorta si oppone e dice ai cittadini di non accoglierlo in
chiesa perché è un empio impenitente. Carafa si accorda in segreto con i
canonici della cittadina sannita i quali, appena Gambacorta si assenta per una
missione, gli organizzano un ingresso trionfale nel centro rurale con una
grande processione alla quale Mustaccio prende parte con cotta, stola e croce. I
canonici si vantano di averlo condotto sotto il baldacchino a cantare il Te
Deum e averlo indotto a baciare la croce, ma lui ha ottenuto il suo scopo
di poter asservire un popolo, mentre le autorità religiose condannano l’accaduto
e scrivono che il fatto è avvenuto con «grave pregiudizio della giurisdizione
ecclesiastica, vilipendio della chiesa e scandalo pubblico».”[6]
“Lasciami
indovinare – fa l’Oxfordiano – Diomede Carafa dice ai fuorilegge che erano
sulle sue terre di Maddaloni e Cerreto Sannita che li lascerà rimanere
indisturbati se si metteranno al suo servizio, altrimenti li condanna a morte o
li fa massacrare a cannonate dall’esercito vicereale. Vero?”
“Pressappoco.
A dire il vero non si conoscono i termini esatti del ricatto, ma deve essere
stato qualcosa di simile.”
“Come fece
Elisabetta con i corsari…”
“Un
paragone plausibile, anche se devo dire che non ho mai conosciuto un pirata, un
corsaro o simili, e tuttavia questi sinistri terrazzani credo siano per molti
versi differenti. Non saprei bene a parole definirti un prototipo che ti consenta
di rappresentarti alla mente queste figure di banditi, alcuni dei quali appartengono
alla peggior genia di grassatori e feroci assassini, altri invece, soprattutto coloro
che con le gesta ignobili si sono arricchiti, sono diventati generosi e hanno
acquistato la simpatia dei semplici che ne fanno dei piccoli re del luogo.
Alcuni di questi finiscono addirittura per ispirare i cantastorie…”
“Capisco
perfettamente. Ne abbiamo anche noi, e gli antichi cantastorie di alcuni secoli
fa sapevano la verità sul più famoso, che ora, diventato un personaggio di letteratura,
teatro e fantasia popolare, è stato trasformato in eroe, paladino di poveri ed
oppressi. Era il capo di una brigata di banditi interdetti dalla città, che
compiva rapine perché impoverito da tasse troppo alte, e viveva nello Yorkshire
dove c’è la sua tomba, ma la leggenda ha spostato di tempo e luogo le sue
gesta, facendone un oppositore del principe che era andato al potere usurpando
il trono di suo fratello. L’uomo si chiamava Robyn Hode, o Robin Hood come
diciamo oggi…”
“Robin
Hood! Lo conosciamo: i Provenzali hanno portato a Napoli le canzoni delle sue gesta,
che lo celebravano come fedele al sovrano legittimo Riccardo Cuor di Leone
spodestato dal principe Giovanni; un arciere infallibile che viveva nella foresta
di Sherwood e rubava ai ricchi per dare ai poveri vessati dalle tasse dello
Sceriffo di Nottingham…”
“È questa
la leggenda che si diffonde dopo il poema allegorico del 1337 Piero l’Aratore,
di William Langland, che rende tutti edotti della fama popolare dell’arciere
vendicatore quando il chierico londinese dichiara: «Non conosco bene le
preghiere di Nostro Signore, ma conosco le ballate di Robin Hood». Era già
famosa la leggenda.”[7]
“Tutto
falso?” Chiede il Napoletano.
“Non
credo, ma è difficile distinguere e sapere dove finisca la realtà e cominci la
fantasia. Il primo vero racconto completo che ho potuto leggere è del 1510: Le
Gesta di Robin Hood, senza alcun riferimento a fonti o collegamenti con i
frammenti di due secoli prima. William Shakespeare ha un’idea ben precisa su
Robin Hood: lui è convinto che l’uomo sia stato un pretesto per far rivivere in
epoca cristiana il mito celtico di una divinità della foresta…” Spiega il Britannico.
“Ah, per
questo è vestito di pelli verdi o al massimo brune, con stivali a punta come un
elfo, e a volte il pizzo al mento…” Lo interrompe il Partenopeo.
“Non so se
dobbiamo prendere sul serio la caratterizzazione iconografica, ma Shakespeare, in
Sogno di una notte di mezza estate, il suo folletto celtico Puck lo
chiama Robin Goodfellow che, oltre all’assonanza che hai sentito nella mia pronuncia,
gioca sul significato di Goodfellow che voi rendereste, credo, con buon diavolo,
ma che nella mia lingua è semanticamente pertinente al ruolo leggendario di
Robin Hood.” Interrompe a sua volta l’inviato, completando la spiegazione.
Nel
silenzio che li circonda, si sente un passo affrettato e scandito avvicinarsi
sempre più, fino ad attrarre la loro attenzione: è un frate certosino che si
ferma appena si accorge di essere scorto e, senza avvicinarsi, dopo aver chinato
il capo in segno di saluto, con un volume della voce che tiene conto dell’amplificazione
dovuta agli spazi vuoti tra le mura nude, annuncia: “Dopo l’Angelus, al
suono della campanella, siete attesi nel refettorio”.
“L’Angelus
– osserva l’Inglese – è la preghiera più bella in onore della Santa Vergine.”
“Noi si
prega l’Angelus tre volte il giorno.” Comunica un po’ compiaciuto il
Napoletano.
“A Oxford,
intendo allo Studio, non si prega più.”
“Allo
Studio anche da noi non si prega, eccetto per qualche solenne cerimonia. Ora
qui, coi frati, si fa come in chiesa e nelle nostre case.”
“Sai che è
una preghiera antica, l’Angelus. Risale al Concilio di Clermont, quando
Urbano II la introdusse per ringraziare la Vergine Maria del buon esito della
crociata, mi sembra fosse il 1095; ma secondo alcuni frati esisteva già e il
Papa l’ha solo resa ufficiale.”
“Ho
imparato qualcosa. Come molti in Italia, io credevo fosse di San Bonaventura da
Bagnoregio che, quando era ministro dei Francescani, al Capitolo Generale dei Frati
Minori di Pisa del 1263, prescrisse il suono della campana per esortare i
fedeli a salutare la Madonna prima della sera, all’ora in cui si riteneva si
fosse verificato il miracolo dell’Incarnazione.”[8]
“San Bonaventura
ha molti devoti anche in Inghilterra, sia anglicani che cattolici come noi. Fu
Luigi XI di Francia a prescrivere per il suo Stato la recita dell’Angelus
tre volte al giorno, con il suono della campana anche a mezzogiorno… Ma, in
questa nostra piacevole conversazione, ci siamo un po’ persi o, per meglio dire,
ti ho un po’ sviato con le mie interruzioni…” Osserva l’Inglese.
“Si, fra
corsari, Robin Hood e preghiere siamo fuggiti via dal Carafa e dall’insurrezione…”
Risponde ridendo il Napoletano.
“C’era un
piano diabolico del Mustaccio, mi avevi detto, vero?”
“Ecco il piano:
300 banditi di Maddaloni e Cerreto Sannita agli ordini del comando della sua
guardia di palazzo a Napoli devono fingersi popolani volontari desiderosi di
combattere contro le milizie vicereali e appassionati ammiratori del coraggio
di Masaniello, e così infiltrarsi in ogni ganglio dell’organizzazione degli
insorti: dalle vedette del porto ai comandi delle ottine, dai lazzari di Porta Capuana,
dove hanno il loro quartier generale, alle bande dei decumani e dei pallonetti.
Gli infiltrati sono organizzati in una rete di trasmissione delle informazioni,
che devono giungere momento per momento al palazzo di Diomede Carafa, ma allo
stesso tempo queste spie devono impegnarsi nel mostrarsi obbedienti ed efficaci
per conquistare la fiducia degli insorti. Vedi – fa il professore rivolgendosi
al collega britannico con un tono più confidenziale – ho letto che gli
informatori segreti della regina Elisabetta avevano la virtù del silenzio: qui
a Napoli uno che parla poco è già un sospetto traditore, perché la vita sociale
è un continuo scambio di umori, sensazioni, impressioni e sentimenti. Le vie di
Napoli, fuori da guerre, calamità e carestie, sono come un grande teatro spontaneo
di improvvisazione, di recite a soggetto, di dialoghi con frizzi, lazzi e invenzioni
umoristiche per attrarre l’attenzione e carpire sorrisi, risate, approvazione e
condivisione; un grande palcoscenico in cui tutti sono allo stesso tempo attori
e spettatori. Una persona silente o è un “puorco ’e fore morra”[9], ossia un taciturno che si apparta per
carattere, e in quanto tale conosciuto dal vicinato, oppure è subito
considerato uno “che tene ’o mariuolo ’ncuorpo”, ossia che occulta in seno
intenzioni malevole o propositi malsani. Gli infiltrati del Mustaccio, che i Napoletani
non conoscevano, dovevano, per questo, mostrarsi estroversi e amichevoli,
dovevano familiarizzare, esprimere simpatia, condividere pane e frutta delle
proprie bisacce – indispensabili in quel frangente in cui anche le donne erano
fuori di casa in rivolta e nessuno poteva stare ai fornelli – offrirsi
volontari per i compiti più umili e rischiosi, in breve: fare di tutto per apparire
assolutamente affidabili, se non ammirevoli, agli occhi dei rivoltosi.”
“Un’insidia
terribile: trecento falsi amici eterodiretti, pronti ad agire come un uomo
solo!”
“Proprio
così. Ma lo scopo principale del piano era, dopo aver ottenuto la fiducia del
popolo e dei suoi capi, influenzarli diffondendo un’idea, la stessa, originata
da trecento voci diverse in tutta la città…”
“Un modo
per manipolare le coscienze.” Rileva l’Inglese.
“Esatto.”
Conferma il Napoletano.
“Convincere
che sia vero e giusto quello che dice la maggioranza, secondo l’antico adagio: vox
populi, vox Dei.”
“Proprio
questo era il punto: dopo aver ispirato alla maggioranza pensieri a sostegno
delle proprie rivendicazioni, gli infiltrati del Duca Diomede Carafa dovevano
diffondere da trecento fonti convergenti il discredito su Masaniello, inducendo
il popolo stesso a ripudiarlo come capo e, infine, a ucciderlo come traditore.”
A sentire questo,
l’inviato di Oxford, senza rendersene conto, articola in parole il pensiero che
gli era sorto spontaneo: “Mi chiedo il perché di questo male.”
“Perché quelli
come il Carafa si sono emancipati da Dio.” Si sente rispondere.
“Emancipati?
Non capiscono che emanciparsi da Dio vuol dire rendersi schiavi del
mondo?”
“No, non
lo capiscono. Perché non è una questione di intelletto, ma di coscienza.”
“Non se ne
rendono conto. Vuoi dire che non riescono a vederlo con la mente?”
“Si, è
così. Perché mentre l’intelletto si esercita attraverso la logica, il ragionamento
o il calcolo, che si applica a qualcosa che ha riscontro in oggetti di memoria,
questa capacità di coscienza riguarda il cogliere un’evidenza della realtà.”
“Già. Mi
piace come l’hai detto. L’essere schiavi del mondo, di atei e pagani, ai
nostri occhi è un’assoluta evidenza di realtà!”
“Intanto,
il piano del Mustaccio ha funzionato alla perfezione per la prima parte, ossia
quella della conquista della fiducia, perché nessuno sembra sospettare la
presenza delle spie. E così giunge il momento di passare alla seconda fase,
quella del discredito. Ma la disaffezione per il biondo pescatore non si sviluppa
così rapidamente ed omogeneamente come era accaduto per la fiducia verso gli
infiltrati: troppi lo conoscevano personalmente da molto tempo; tanti avevano
condiviso con lui in mare e alla vendita del pescato tanti giorni della propria
vita, apprezzandone la generosità, la lealtà, l’agire disinteressato, la
sincera passione civile e la sensibilità solidale con la gente bisognosa di
aiuto.”
“È questo,
per me, l’aspetto più spregevole di questa prassi satanica: calunniare per
facilitare l’omicidio. Cosa c’è di peggio?” Si sdegna l’Inglese.
“Ahimè, al
peggio non v’è mai fine, si dice in Italia, ma ti capisco! Dunque, Diomede
Carafa ha bisogno dell’aiuto dello stesso viceré per attuare la seconda parte
del piano: suggerisce infatti al duca d’Arcos Ponce de Leon di convocare
segretamente Masaniello e corromperlo. Subito dopo, i testimoni occulti della
corruzione avrebbero reso pubblico il fatto, facilitando ai trecento infiltrati
il compito di sobillare il popolo, fomentando il risentimento nei confronti di chi,
per avidità e brama di potere, avrebbe disatteso l’impegno d’onore preso con la
sua gente.”
“E il
viceré che fa?” Domanda l’Oxoniano.
“Il
corpulento e pingue sostituto del sovrano di Spagna – risponde il Partenopeo – lusinga
in ogni modo il giovane pescatore, sollecita le sue ambizioni con la promessa
di alte cariche e lo tenta con la prospettiva di una vita agiata e un avvenire
da nobile ricco e potente. Ma Masaniello rifiuta in modo categorico, e spiega
che quel tentativo di corruzione rivela il non aver compreso la drammatica
realtà di una rivolta di popolo che potrà placarsi solo quando si vedrà l’attuazione
dei capitoli previsti da don Giulio Genoino in ottemperanza del Privilegio di
Carlo V.”
“Bravo
Masaniello!” Esclama l’Oxfordiano.
Noi, in proposito,
leggiamo quanto riferisce Gleijeses: “Masaniello, che era stato nominato Capitano
del Popolo, cominciava ad avere molti nemici anche se si era dimostrato una
persona onesta, rifiutando un tentativo di corruzione da parte del duca d’Arcos”[10].
Il professore
riprende: “Gli infiltrati vanno ugualmente avanti con maldicenze e calunnie, ma
il popolo non crede loro, perché il giovane Capitano, subito dopo essere uscito
dal palazzo, denuncia alla gente riunita in permanenza il tentativo di
corruzione e dichiara che ognuno può verificare il suo pegno di fedeltà dal
fatto che rimane in mezzo a loro, e possono trovarlo nel quartier generale
della chiesa del Carmine.”
“A questo
punto Mustaccio, visto il fallimento – chiede l’Inglese – non cambia strategia?”
“No, conserva
il piano generale, ossia non dà contrordini agli infiltrati – spiega il Napoletano
– ma devo riferirti un evento che ho deliberatamente omesso quando ti ho
raccontato dei fatti che portano al lavoro comune di Filomarino col pescatore e
tutta la consulta del popolo, che si protrae tutta la notte tra il 10 e l’11 di
luglio. Te ne ricordi?”
“Certo,
quando credevo si fosse giunti a un lieto fine!”
“Ho omesso
un fatto che, senza tutta la mia esposizione sui Carafa, sul duca Mustaccio e
sul suo piano con i trecento infiltrati, sarebbe risultato incomprensibile,
almeno tanto quanto sorprendente era parso a tutti i testimoni…” Spiega il
professore.
“Dunque,
qualcosa che è accaduto in chiesa quando si lavorava al cambiamento delle leggi?”
Chiede il suo interlocutore.
“Si, in
particolare quando si è data pubblica lettura dei capitoli del Privilegio di Carlo
V e del documento redatto da don Giulio Genoino. Nella chiesa del Carmine, il
quartier generale degli insorti, erano presenti gli infiltrati che lavoravano ancora
per conquistare la fiducia dei seguaci di Masaniello, ma nessuno aveva neanche
un lontano sospetto di questo, e tutti si sentivano al sicuro. Ad un tratto, si
sentono risuonare dei colpi di archibugio e si vede che sono diretti verso
Masaniello. Cosa stava accadendo? Diomede Carafa, sapendo certa la presenza in
chiesa del pescatore capopopolo, aveva pensato di abbreviare i tempi del piano
e sbarazzarsi subito di lui, commissionando un attentato: incarica il noto bandito
Domenico Perrone, coadiuvato da un tale Antimo Grasso[11], di sparare con gli archibugi il ventisettenne del
Vico Rotto. Appena uditi gli spari, la folla corre nella direzione di
provenienza, individuando i due sicari e altri loro compari in fuga, sventando
in tal modo l’attentato e riuscendo ad arrestare tanto Domenico Perrone quanto
Antimo Grasso: il primo è subito condannato alla decapitazione[12] e il secondo, messo alle strette, confessa di
essere stato assoldato da Diomede Carafa, duca di Maddaloni e conte di Cerreto
Sannita. Anche altri, presi dai rivoltosi, confessano la stessa cosa.”[13]
“Allora, a
quel punto, il popolo sa di Diomede Carafa!” Constata l’inviato di oltremanica.
“Certo –
risponde il collega – e lo ritengono mandante dell’attentato. Infatti, dopo aver
arrestato i due attentatori, una pattuglia di insorti si mette sulle tracce del
duca di Maddaloni, ma non lo trova…”
“Ma,
quando Mustaccio viene preso e picchiato a sangue per aver portato un documento
falso, chi lo aveva arrestato e perché lo lasciano andare?” Interrompe l’inviato.
“Non si sa
bene. Questo è un punto un po’ oscuro e controverso. Qualcuno racconta che è stato
lo stesso Masaniello a tirarlo giù da cavallo, afferrarlo per i capelli, picchiarlo
e farlo prigioniero[14]; ma altri testimoni non confermano. Alcuni sostengono
che è stato aiutato a fuggire da Giuseppe Apperti, un Maddalonese che era fra
gli insorti e presumibilmente uno degli infiltrati, ma alcuni fedelissimi del
pescatore dicono di non conoscere l’Apperti. Non ero presente: ero nel Palazzo
dei Regi Studi al riparo, ma qualcuno fra coloro che erano lì dice che lo hanno
lasciato andare perché impietositi. In fondo, aveva solo tentato di raggirarli,
e magari hanno pensato che era stato il viceré l’ideatore del raggiro. Dopo, quando
hanno saputo che era il mandante dell’attentato al loro capo, hanno deciso di
giustiziarlo…”
“Ma non lo
trovano. E si arrendono subito? Non pensano di cercare di individuare la base operativa?”
“All’ultimo
quesito non so rispondere. Ma posso dirti che, non solo non si arrendono, ma agiscono
con furia travolgente. In tanti montano a cavallo e lo inseguono al galoppo senza
riuscire a raggiungerlo, ma senza mai perderlo di vista fino al giorno dopo,
quando lui varca le porte della città di Benevento, possedimento dello Stato
della Chiesa, dove chiede asilo politico e protezione personale.”
“Accidenti!
E il Cardinale Filomarino non poteva fare nulla con la Chiesa?”
“No di
certo, si tratta di leggi antiche. Di fatto Diomede Carafa rimane nascosto a
Benevento fino alla fine dell’insurrezione. Allora gli insorti decidono di giustiziare
il fratello Giuseppe Carafa, in sua vece. Lo cercano a tutte le ore e più volte
nel Palazzo Carafa del quartiere Stella. Uno dei luoghi storici più complessi,
misteriosi, mostruosi, gloriosi, conflittuali e suggestivi della storia di Napoli
dove, non per caso, si concentrava il potere di quella famiglia con le poche
luci e le troppe ombre che erano sulla bocca di tutti.”
“Cos’ha di
strano?”
“Tutto!”
“Spiega,
per favore.”
“Dopo la
costruzione della Porta di Costantinopoli nel secolo scorso, è diventata un’area
definitivamente inclusa nel territorio urbano, ma tradizionalmente era considerata
una terra di confine con l’aldilà, col regno dei morti. Comprende Materdei, poi
un vallone dove l’aria è salubre, e per questo è denominato rione Sanità e, infine,
il borgo dei Vergini. Tutta l’area era adibita a sepoltura in epoca greco-romana,
ma si narrava che lì esisteva un’antichissima necropoli prima della fondazione della
città[15], da qui la leggenda di regno dei morti. Tra il
II e il IV secolo d.C., durante la persecuzione dei cristiani da parte dei Romani,
nel quartiere Stella nascono dei vastissimi mondi sotterranei, ancora non
completamente esplorati, come le Catacombe di San Gennaro e di San Gaudioso;
dal Medioevo in quell’area, e particolarmente nel rione Sanità, si verificano
innumerevoli guarigioni miracolose, la cui fama si diffonde così tanto da farvi
accorrere gente da ogni dove per ottenere la guarigione delle più disparate malattie,
e vi è anche chi sostiene che si chiami “Sanità” per questa ragione. Vi abbondano
indovini, fattucchiere, chiromanti, negromanti, astrologi e praticanti di arti
demoniache che comportano l’uso di teschi e parti di cadavere. I Carafa sono i
signori di quel quartiere.”
“Perché
Stella?”
“Perché
anticamente, su un colle che dominava il vallone della Sanità, presso la Porta
San Gennaro, si custodiva un’antica immagine della Vergine Maria nella quale
figurava una stella; per dare degna collocazione alla Madonna della Stella fu
fondata nel 1571 la chiesa di Santa Maria della Stella, poi riprogettata e ingrandita,
come la si vede ora, da Domenico Fontana, credo nell’anno 1587.”
“Dunque,
il regno dei Carafa è nel quartiere dei misteri, dei morti, degli spiriti disincarnati
e dei maghi, ossia di quelli che frodano i gonzi e gli ingenui fingendosi
veggenti, mediatori con l’aldilà o persone dotate di poteri soprannaturali. Una
bella copertura per occultare crimini e misfatti, attribuendoli a forze
soprannaturali, ma anche per fare giochi di magia.” Osserva l’Inglese.
“Appunto,
per questo gli insorti fanno varie incursioni nel palazzo e cercano dappertutto
nel circondario, senza riuscire però a trovare Giuseppe Carafa. Sì, perché il ‘gioco
di magia’ – come dici tu – era riuscito alla perfezione. Il fratello del
Mustaccio si era travestito da frate e, con ingegnosi accorgimenti, era riuscito
a modificare la sagoma del corpo e l’aspetto di quel poco che si intravvedeva
del viso sotto il cappuccio…”
“Era
diventato un Munaciello?” Prova a chiedere l’inviato.
“Tutt’al
più un Monacone! Ma che ne sai tu del Monaciello?” Stupisce il Partenopeo.
“Me ne ha
parlato un marinaio sulla nave. Mi ha detto che a Napoli si crede in uno
spiritello vestito da monaco che in napoletano si chiama Munaciello!”
“È vero –
ammette sorridendo il professore – qui sopravvivono credenze antiche come
quelle dei demoni domestici, demoni nel senso del daimon greco… Abbiamo
una lunga lista di demoni domestici, fra cui i più noti sono la Bella Mbriana,
il Munaciello, lo Scazzamauriello e il Farfariello. Sono stati modificati nei secoli
dalla fantasia creativa e dai lievi cambiamenti cui va incontro nella tradizione
orale la memoria della superstizione, anche se la sua connotazione prevalente è
la cristallizzazione stereotipica e l’impenetrabilità alla ragione.”
“Magnifica
caratterizzazione del pensiero superstizioso – rileva l’Inglese, e poi riprende
sul misterioso spiritello incappucciato – il Munaciello è imprevedibile e dispettoso,
mi hanno detto, ma chissà perché è l’unico spirito domestico partenopeo di cui
si parla fuori di Napoli…”
“Forse
perché è quello visto da più persone, anche ai nostri giorni. Napoli non è facile
da conoscere. A proposito, sai che sotto la città di Napoli ci sono
innumerevoli cisterne?”
“No. Vuoi dire
che sotto i nostri piedi vi sono grandi cavità sotterranee?”
“Esattamente.
Per edificare Partenope gli antichi Greci usavano il tufo, che prelevavano mediante
scavi sottoterra, creando decine e decine di enormi cavità. I Romani
sfruttarono queste cavità per la raccolta d’acqua collegata al sistema degli
acquedotti. Ogni casa è provvista di un pozzo che può attingere acqua dalla cisterna
sottostante.”[16]
“Straordinario!”
“I pozzi hanno
sempre bisogno di manutenzione, della quale si occupano i “pozzari”, detentori del
sapere di un mestiere che si tramanda dalla notte dei tempi e richiede anche
particolari caratteristiche fisiche: devono essere piccoli di complessione e
statura, estremamente agili, bravi arrampicatori e soprattutto esperti nel
muoversi con destrezza, coperti come sono di mantello e cappuccio, per ripararsi
dalle colate d’acqua. I pozzari possono emergere dal pozzo all’interno dell’abitazione
in qualsiasi momento. Ecco perché la gente a Napoli continua a vedere il
Munaciello.”
“Ora ho
capito!”
“Giuseppe Carafa,
invece, come finto monaco, si sente perfettamente al sicuro, perché era anche stato
visto ma non riconosciuto. Ritiene ormai di essere protetto dalla nuova identità.
Gli insorti, dal canto loro, non si danno pace, perché fin dall’inizio della
fuga di Diomede verso Benevento hanno bloccato le principali vie di uscita dalla
città e hanno messo dei drappelli armati in corrispondenza dei principali punti
di sbocco della Napoli sotterranea, delle catacombe e dei passaggi segreti
usati dai nobili, e dunque non capiscono come possa essere sfuggito loro il
fratello del duca di Maddaloni.”
“Scacco
matto?”
“Non
direi. In quei giorni, per ordine di Masaniello, tutti i messaggeri non inviati
dal popolo dovevano essere fermati e perquisiti, e dovevano essere requisite le
eventuali missive in loro possesso. Questa attività di controllo consente agli insorti
di intercettare un messaggio indirizzato al viceré, in cui lo si esortava a
sparare dei colpi di cannone da qui, da Castel Sant’Elmo, sul popolo, per
intimorirlo. I rivoltosi comprendono subito che il mittente deve essere un
nobile autorevole ascoltato dal duca d’Arcos e, in men che non si dica, si
mettono all’opera per rintracciarlo: poco dopo risalgono al finto frate e, senza
difficoltà, lo smascherano. Giuseppe Carafa è condannato dal popolo alla pena capitale
e giustiziato, come si vede nel dipinto documentale di quel realistico pittore
di tragedie che è Micco Spadaro[17]. Appena possibile, ti mostrerò i suoi quadri,
vedrai sarà come essere stati un po’ testimoni di queste vicende.”
L’Inglese
fa un cenno del capo, sorridendo, per assentire e ringraziare, poi:
“Dunque, con
questa parentesi hai soddisfatto la mia curiosità sulla reazione degli insorti
alla consegna del falso documento da parte di Diomede Carafa, ma col filo della
narrazione eravamo giunti al tentativo fallito di corruzione da parte del
viceré. Se ho ben capito, il pescatore ne era uscito rafforzato nella stima,
per aver dimostrato integrità e coerenza…”
“Esatto, e
quindi sia pur da lontano, da Benevento, Mustaccio è alle prese col problema di
trovare un nuovo modo per delegittimare Masaniello, facendo sempre leva sugli
infiltrati nel popolo. Il governo della città da parte del pescatore di Vico
Rotto comincia il venerdì 12 luglio 1647, ma il giorno precedente, al termine
della cavalcata trionfale verso il Palazzo Reale con lo stato maggiore del
popolo, prima di ricevere il titolo di Capitano Generale del Fedelissimo
Popolo di Napoli, accade un fatto apparentemente trascurabile e ignorato da
molti, ma non da tutti: venute meno di colpo tutte le cause dell’altissima tensione
emotiva espressa quale rabbia e paura, in uno stato di eccitazione collettiva
che aveva comportato digiuni e notti insonni, Masaniello crolla in terra
svenuto.”[18]
Prima che
l’Inglese possa articolare le parole che gli sono affiorate alla mente, entrambi
sono messi a tacere dall’argentino, vibrante, acuto, insistente e preannunciato
suono della campanella, che ricorda loro di recarsi alla sala del refettorio,
secondo le istruzioni del frate certosino.
50. Intermezzo conviviale: l’inviato di
Oxford alla mensa dei frati in Sant’Elmo. I frati, venuti dalla vicina Certosa di San
Martino, avevano organizzato l’ospitalità nella fortezza di Sant’Elmo per i rifugiati
in fuga dalla peste che stava falcidiando la popolazione di quasi tutti gli altri
quartieri della città. Per quanto era stato possibile, avevano allestito
alloggi completi e indipendenti per molte famiglie, mentre con i membri dello Studio
avevano definito un accordo di supporto, fornendo loro i pasti in un refettorio
comune, oltre che i posti letto nelle stanze libere della fortificazione. Gli accademici,
dal canto loro, avevano deciso di supportare economicamente le iniziative caritatevoli
della Certosa.
Per
raggiungere il refettorio, i due scendono lungo le rampe del castello e l’Inglese
volge il capo all’azzurro del cielo inquadrato dalle pietre antiche, quasi a
volerlo catturare con gli occhi e portarselo dentro nella penombra della sala.
Il professore napoletano lo precede e, preoccupato di deludere le attese del suo
ospite, senza fermarsi gli si rivolge:
“Non so cosa
i frati siano riusciti a rimediare per il pasto. Devi perdonarci, ma la
pestilenza ha reso tutto molto difficile…”
“Non
preoccuparti, noi a Oxford siamo parchi.”
“Noi no,
amiamo la buona tavola…”
“Non temete
i peccati di gola?”
“In questo
periodo no, perché i frati che ci ospitano qui, in Sant’Elmo, sanno bene guidarci
alla pratica dei digiuni penitenziali. Ma, a pensarci bene, anche prima dell’epidemia
non temevamo di peccare, perché da noi tutto ciò che attiene al convivio proviene
da antichi costumi tramandati come regole di buon gusto, sapienza nelle scelte,
eccellenza nella preparazione, estetica della presentazione, equilibrio fra
vivande e libagioni, fra razioni e commensali: una pratica quotidiana appresa
sin dall’infanzia quale uso morigerato del più lecito dei piaceri. Beninteso,
dopo una breve prece prima del pasto per rendere grazie dell’aver soddisfatto
il desiderio di cibo, e ricordando dopo il termine della mensa di recitare una
formula di ringraziamento per averci saziati, mentre si raccolgono gli avanzi che
i domestici mettono via per gli indigenti.”
“Lodevole
abitudine raccogliere quanto è avanzato, come fecero i discepoli dopo la moltiplicazione
dei pani. Trovo molto interessante questo rapporto con la mensa e il cibo
attraverso l’educazione…” Dichiara con spontanea immediatezza l’inviato del Circolo.
“Forse un
po’ farisaico…” Osserva autocritico l’interlocutore.
“Da noi
solo la famiglia reale ha una tradizione simile, ma credo sia più legata all’esteriorità
di regole introdotte dalla regina Elisabetta per i pranzi di corte, allo scopo
di fare colpo su monarchi e diplomatici delle altre potenze europee, che a
interesse per cibo e rituali annessi.”
“In ogni
caso, ora qui vi sarà pane raffermo, zuppa di prodotti dell’orto del castello, formaggi
e forse un po’ di carne salata, all’uso dei frati.”
Giunti nella
sala del refettorio, il docente dello Studio napoletano presenta l’ospite a tutti
i colleghi e ai frati diaconi addetti alla mensa, imbandita con brocche di maiolica
berrettina di Faenza colme d’acqua, una per ciascun commensale, e con una pila
di cinque pani tondi schiacciati ogni cinque posti. Prima di accostarsi al
lungo tavolo, l’Inglese trae dalla borsa che porta a tracolla una custodia di
cuoio inciso con impressioni in oro contenente delle antiche pergamene vergate
in gaelico, quale dono dello Studio di Oxford allo Studio di Napoli, e poi, dopo
aver cercato con lo sguardo il priore, averlo identificato e raggiunto, gli porge
una piccola e preziosa pergamena miniata, recante un Pater Noster dal
Vangelo di Matteo in latino, tracciato con elegante grafia in scriptio continua
quadra, nella tinta suggestiva di un antichissimo inchiostro reso cangiante dal
tempo. Mentre l’anziano frate, commosso e grato, prende delicatamente tra le
dita il sottile foglio trattato col metodo anticamente usato a Pergamo, l’inviato
del Circolo oxfordiano specifica:
“Non si
conosce con precisione l’anno in cui sia stata scritta e miniata. Era custodita
tra i cimeli del nostro fondatore Roberto Grossatesta. È sicuramente antecedente
all’anno mille e sappiamo che viene dall’Italia.”
Dopo i
ringraziamenti ed altri convenevoli, seguendo i cenni del capo del priore, ciascuno
raggiunge il proprio posto presso la mensa e rimane in piedi in attesa di udire
le parole latine che accompagnano il segno della croce e precedono l’Oremus.
Pregano avvolti in una luce che viene dall’alto e, come sull’altare delle
cattedrali, si smorza progressivamente dopo aver illuminato i volti assorti in
preghiera e le mani giunte, fermandosi sulla superficie del tavolo, come il tempo
stesso che sembra sospendersi nella pausa breve e intensa di silenzio che segue
le ultime parole rivolte a Dio.
Siedono e,
per un po’, non si sente altro che i piccoli rumori involontari di un desinare
discreto e misurato, fino a quando il decano dello Studio di Napoli si rivolge
all’ospite di Oxford:
“Desidero chiedere
venia, a nome di tutto il consesso che rappresento, al nostro illustre collega
inglese, per non aver potuto allestire e offrire in suo onore il banchetto
celebrativo che meritava la circostanza della sua visita, ma a causa di questa tragica
epidemia di peste, che devasta i corpi e scuote le anime, siamo ridotti nello
stato in cui ci vede.”
“Considero
un onore e un privilegio sedere al vostro desco, e vi sono vieppiù grato in questa
dura prova cui siete sottoposti, per aver voluto dedicare tempo e attenzione a
un pellegrino venuto di lontano, che non ha certo il lustro e la fama dei
maggiori che voi conoscete del nostro Studio, ed è venuto qui col solo
proposito di farsi umile allievo della vostra scienza, della vostra saggezza,
del vostro consiglio. Per parte mia, vi darò conto degli ultimi approdi delle
menti più brillanti del nostro Circolo.” Risponde l’Oxoniano con sincero
trasporto ma rivelando – per l’immediatezza con la quale esprime in parole così
formalmente corrette e allo stesso tempo essenziali un pensiero compiuto – di aver
preparato in anticipo quanto aveva appena detto, come incipit di un discorso.
E questo non meraviglia, considerato che si aspettava di essere ricevuto al
Palazzo dei Regi Studi per parlare in un’aula universitaria.
Il decano
riprende: “Ringraziando a mia volta per le parole di stima che ci rivolge, le
dico con franchezza che la fiducia che ripone in noi è eccessiva e, se mai
potrà trarre consiglio da noi, questo sarà per le virtù del suo acume, della
sua sagacia e della sua prudenza, che le consentiranno di riconoscere quell’esile
radice di sapienza cristiana che permane nel nostro avviso, a dispetto della nostra
pervicace e diuturna compromissione col mondo. A proposito della nostra parca mensa,
le dico che i frati ci hanno insegnato un esercizio: nello spartirci e
addentare pane e cacio, provare a immaginare le pietanze più gustose e prelibate,
descrivendone l’aspetto e la fattura…”
“È simile
agli esercizi di continenza alimentare di ascetici e stoici.” Osserva l’Inglese.
“Sì, ma
noi – spiega un docente di matematica – ne facciamo un’occasione per scambiarci
le migliori ricette di cucina. Ad esempio, Alberigo Acciaiuoli che viene da Firenze
ci ha insegnato una carbonata da farsi con fette di pane grosse un dito,
lardate con prosciutto fine, messe a friggere, e poi cosparse con un elisir di vino,
spezie e aceto.”[19]
“Si tratta
di una ricetta che proviene dall’Epulario.” Precisa il nostro professore
rivolgendosi all’ospite inglese.”
“Cos’è l’Epulario?”
Chiede questi.
“Un famoso
libro di cucina scritto da Giovanni del Turco nel 1602, nel quale ha raccolto
le 166 ricette più richieste della cucina fiorentina, e fino allora tenute segrete,
per preparare «carne, pesce et ova»[20]. Dico bene?” Fa il professore rivolgendosi all’Acciaiuoli,
che interviene:
“Certamente.
Nel 1636 scrisse anche due compendi minori, sotto il titolo di Segreti vari:
il primo era dedicato alla pasticceria, il secondo alla confetteria. Anche qui
a Napoli sono molto apprezzate le ricette dei confetti, particolarmente quelli
dorati e argentati. Giovanni del Turco era un musicista virtuoso della corte di
Cosimo II, membro della Camerata de’ Bardi, come Vincenzio Galilei, e dunque
tra gli ideatori del melodramma, consigliere dell’Arte dei Medici e degli Speziali,
e convinto assertore della nobiltà e superiorità delle tradizioni culinarie italiane
antiche. Per questo nelle sue ricette non compaiono pomodori, fagioli, patate,
mais, cacao…”
“Immagino
che manchino anche peperoni, peperoncini, zucca e tutto quanto è venuto dall’America…”
interrompe l’Inglese.
“Si,
perché Giovanni del Turco raccoglieva ricette storiche che risalivano a prima
della scoperta del nuovo continente. Agli inizi del nostro secolo sono stati
pubblicati moltissimi libri di cucina, ma la tradizione è molto più antica. La
questione è che fino al Rinascimento le ricette erano legate a un vincolo
assoluto di segretezza, e nessuno pubblicava libri per rivelare i segreti che
avrebbero assicurato prosperità e benessere ai propri discendenti. Lo avevano
fatto gli antichi come Apicio, il celebre Marco Gavio Apicio, lo scrittore
gastronomo, che sembra sia vissuto proprio all’epoca di Nostro Signore. Infatti,
si vuole che all’epoca di Tiberio, nel 30 d.C., abbia raccolto oltre 500
ricette di cucina.” Spiega l’altro.
“Apicio è
l’autore del De re coquinaria, l’opera più importante sulla cucina dell’antica
Roma?” Chiede il Napoletano al Fiorentino, che gli risponde:
“Il De
re coquinaria è una raccolta in dieci libri che contiene le ricette di
Apicio, ma è di molto posteriore, forse del III o IV secolo d.C., e non sembra
opera di uno scrittore, ma di un cuoco frettoloso…”
“Caro
collega di Oxford – interviene il decano molto divertito – questi signori sono
biblioteche viventi di quest’arte. E meno mangiano, più se ne ricordano!”
“Messi, lo
conosci?” Riprende Alberigo Acciaiuoli.
“Messi? Chi
è?” Chiede l’ospite.
“Cristoforo
Messisburgo o Messisbugo. So che voi lo chiamate «Messi» in Inghilterra, e da
noi è detto «Sbugo». Lui scrisse Banchetti, composizioni di vivande et
apparecchio generale, diviso in tre parti: nella prima si descrivono gli
utensili da cucina, nella seconda i menu e nella terza si insegna a fare ogni
sorta di vivanda. Dopo Martino de Rubeis, Bartolomeo Sacchi detto Platina,
venne lo Sbugo che raccolse le ricette di questi altri valenti gentiluomini e,
dopo di lui, Scappi e Romoli detto «Panonto»[21]. Ecco, Giovanni del Turco prese da tutti questi.”
Conclude il Fiorentino.
“Io ho un
indice accurato delle ricette dello Scappi, del Romoli e del Messi; mi sbaglio
o l’autore è sempre il del Turco?” Domanda il nostro professore.
“Non ti
sbagli, è lui!” Risponde quasi entusiasta l’Acciaiuoli. E poi, rivolto all’ospite:
“Bisogna che noi ti si spieghi cos’hanno di speciale codeste ricette: vedi, se
tu le leggi – e noi te ne daremo una copia – puoi diventare un maestro d’arte
coquinaria impareggiabile, perché ti conducono per mano nella preparazione, vi
sono indicate le dosi con una precisione tale che nemmeno un consumato speziale
potrebbe far di meglio e, soprattutto, sono specificati i tempi di durata di
ogni cottura, così che solo se ti va in frantumi il vetro della clessidra puoi
sbagliare!”
“Oh, comprendo!”
Si compenetra l’Inglese.
“E come se
la cava tra braci e fornelli il nostro ospite d’oltremanica?” Interviene il
decano.
“Per la
verità, a Oxford sono preso tra Lord che ritengono la cucina un affare per
sguatteri e massaie poco adatto a gentiluomini addottorati, e alti prelati che fanno
severe reprimende a chi si compiace della buona tavola. Dunque, per rompere il
digiuno al mattino[22] mangio un paio d’uova e del trancio di maiale salato
e affumicato o, in alternativa, cacio come il vostro ma sicuramente meno buono
di questo.” Spiega l’Inglese.
“Allora si
sta annoiando con questi discorsi?” Fa il decano.
“Al
contrario. Trovo tutto interessantissimo! In Italia sento che uomini d’alta
cultura scrivono di cucina da secoli, e questo mi sembra affascinante.”
“Ma il Circolo
di Oxford non disputa certo di questo, mi pare di capire – incalza il decano e,
leggendo nella mimica facciale dell’interlocutore un assenso sorridente, lo
interroga direttamente – e, dunque, quali sono gli argomenti e i protagonisti
di maggiore attualità da voi?”
“Vari.” Risponde
l’Inglese, prendendo un po’ di tempo con una pausa, e poi, dopo aver rapidamente
ponderato e scelto il modo più opportuno e l’argomento più adatto da comunicare,
riprende: “Ciascuno di noi ha i suoi preferiti, sia per gli argomenti sia per i
colleghi, ma io eleggo al primo posto Robert Boyle: un medico di grande
profondità spirituale che sta proponendo al mondo la chimica, come nuova
scienza della materia da porre accanto alla fisica, ma che ha metodi suoi
propri, derivati dall’alchimia, e scopi in parte nuovi, inusitati e meravigliosi.”
“Sono già
curioso di conoscere la scienza e la persona!” Esclama il decano.
“Boyle –
riprende l’Inglese – ha appreso da George Starkey e altri alchimisti che gli
atomi, come costituenti ultimi e indivisibili della materia, sono un’ipotesi
scientifica e non una semplice postulazione speculativa come quelle di
Leucippo, Democrito ed Epicuro, e sulla loro esistenza si possono sviluppare
esperimenti per giungere a conoscere la natura della materia.”
“Ecco, illustri
colleghi, questa è musica per le mie orecchie e pane per i vostri denti! Non
come si cuociono le barbabietole e come si friggono le ova! Hai inteso tu,
Acciaiouli?” Tuona entusiasta il decano.
“Ho
inteso!” Risponde il Fiorentino, e poi prosegue: “Per la verità, io ho letto
molte cose misteriose e strane sull’alchimia, particolarmente quella che viene
dall’America, e mi sembra che la scienza e la fede abbiano in comune con l’alchimia
meno di quanto ne abbia un bel fiore con un cavolfiore! Pensate che Paracelso
aveva predetto che sarebbe venuto al mondo un profeta-alchimista che avrebbe
cambiato le sorti dell’umanità, e nella regione americana detta New England si
sostiene che la profezia si sia avverata con l’avvento di un uomo, manco a
dirlo un alchimista, che sostiene di poter far nascere nuove pesche da un pesco
rinsecchito e far spuntare in un’anziana donna sdentata nuovi denti come fosse
una bambina!”[23]
“L’ho
sentito, si, l’alchimista americano si chiama Eirenaeus Philalethes.” Dice un
frate.
“Bravo,
proprio così si chiama: Eirenaeus Philalethes.” Spiega Alberigo Acciaiuoli,
anche se poi si affretta a specificare: “Ho letto anche che la maggior parte
degli Americani ritiene Eirenaeus un araldo, un nunzio del profeta-alchimista
ancora da venire.”
“Cosa più
importante, a mio avviso, è che George Starkey sembra abbia preso le sue
ricette alchemiche proprio da Eirenaeus Philalethes: pare che questo mago abbia
affidato dei manoscritti di laboratorio a Starkey per farli pubblicare. Se
questo è vero, temo che si possa essere autorizzati a nutrire più di un dubbio
sul valore scientifico del lavoro di Starkey”. Spiega preoccupato il nostro
professore napoletano.
Allora il
decano, che vede l’inviato di Oxford volgere il capo a destra e a manca per
seguire silenzioso e attento ma quasi divertito chi prende la parola, gli fa, fissandolo
negli occhi: “Si vuole un responso su queste opinioni che gettano un’ombra indiretta
su Boyle e la sua chimica!”
“È presto
detto.” Annuncia l’Inglese con l’aria sorniona di chi la sa lunga.
“Pendiamo
dalle tue labbra!” Esclama il professore napoletano a nome di tutti. E il più
giovane accademico di Oxford, con serafica soddisfazione, dichiara:
“Eirenaeus
Philalethes non esiste!” E subito dopo: “George Starkey ha inventato questo pseudonimo
come espediente: avendo condotto e annotato un’enorme quantità di esperimenti
basati spesso sulla verifica di credenze, supposizioni e intuizioni – sicuramente
commendevoli per difetto di fondamento in un preciso quadro culturale, ma da
lui studiate seriamente mediante verifica sperimentale – e volendo far
conoscere gli esiti delle sue esperienze, ha finto di aver ottenuto delle carte
di laboratorio da questo fantomatico Eirenaeus, così da non compromettere la
propria reputazione. Robert Boyle ha selezionato da questa massa di appunti
quanto gli pareva degno di essere sottoposto a un vaglio più rigoroso, per
verificarne sperimentalmente il valore e, in caso di esito positivo, registrarlo
come acquisizione di conoscenza.”
“Ci ha
rivelato un mondo!” Commenta il decano.
“Semplici
storie di casa nostra.” Minimizza con modestia l’Oxoniano.
“Perdonatemi
l’intrusione.” Esordisce il priore e poi, appena ricevuta l’attenzione: “Ho
sentito che il dottor Robert Boyle è un medico di grande profondità spirituale,
e vorrei conoscere di più di questo aspetto”.
“Con piacere,
padre!” Risponde l’Inglese, e prende subito a narrare: “Boyle, per sondare il
senso delle Sacre Scritture e fare una buona esegetica per le sue personali
esigenze di fede, ha studiato la lingua degli antichi Caldei e la lingua dei
Siriani, oltre naturalmente al greco e al latino dei testi che Santa Madre Chiesa
custodisce e diffonde da tempo immemorabile. Quando ha percepito una completa
conversione del cuore alla dottrina d’amore di Gesù Cristo, ha preso a scrivere
alcuni lunghi e articolati saggi di filosofia morale cristiana. Si è poi
convinto che la nuova scienza chimica, rivelando la struttura del creato, possa
aiutare l’uomo ad apprezzare il lavoro di Dio e, soprattutto, riunendo le menti
sui fatti univoci e oggettivi della realtà, possa contribuire a riunire i
cuori, guarendo l’Inghilterra dalla malattia della divisione in tante sette
religiose.”
“Meraviglioso!”
Esclama ammirato il priore, pur se con un basso volume della voce.
“Boyle crede
che la scienza possa essere un mezzo per nutrire la fede…”
“Che il
Signore lo ascolti e lo aiuti!”
“Boyle
sostiene che i fautori delle sette non sono interessati a Gesù Cristo e dice: This
multiplicity of religions will end in none at all…”[24]
“Giusto,
porteranno all’ateismo.” Concorda il priore. Poi chiede: “E di quelle chimere
tipiche degli alchimisti, lui cosa pensa?”
“La pietra
filosofale?” Domanda a sua volta l’Anglosassone.
“Per
esempio.”
“Se mai
esiste, potrebbe consentirci di parlare con gli angeli.”
“Questo Boyle
mi piace sempre di più!” Conclude il priore.
Tre frati,
appena entrati nel refettorio, si appressano solleciti al desco e uno di loro, posando
due grandi fiaschi, annuncia: “Ecco del vino delle vigne dei monaci di
Camaldoli, i loro caci alle erbe aromatiche e pane di ramerino all’olio, caldo
appena sfornato e fatto con la ricetta di messere Alberigo Acciaiuoli!” E il
Fiorentino, sentendosi chiamato in causa: “Suvvia, egregi, onoriamo la buona
grazia di questo vitto e del frutto della vite! E poi, al desinare si parla di
vivande, di vini e di cucina: avremo tempo e luogo, dopo il calar del sole, con
fogli, penne d’oca e calamai per apprendere scienza dal convitato d’Albione.”
“Istanza
accolta.” Delibera in tono semiserio il decano.
“Allora
avrei io una domanda pertinente per messere Acciaiuoli.” Fa subito l’Oxoniano: “È
vero che le ricette antiche erano solo relative a come cuocere i cibi? Immagino
che la cucina della Roma antica, poi ereditata nel Medioevo e nel Rinascimento
italiano, fosse una cucina molto semplice, con pochi elementi naturali, com’era
per gli antichi Ebrei che non usavano nemmeno il lievito per il pane…”
“Al
contrario! Nella cucina di Apicio si elencano oltre sessanta fra aromi e spezie
e in ogni salsa se ne mettono almeno dieci! La questione fondamentale è il
sapore: noi oggi siamo abituati a fare salse di pomodoro e cipolle che
costituiscono una base di sapore per tante preparazioni; all’epoca, invece,
spesso non avevano neanche il sale, e allora gli aromi erano indispensabili.”
Spiega il professore.
“Ma forse
il nostro ospite voleva sapere dei primi libri scritti nella lingua di Dante,
in italiano…” Ipotizza l’Acciaiuoli.
“Si, vero.”
Ammette l’Inglese.
“Il primo
manoscritto fiorentino è un tesoretto d’arte calligrafica del 1338 intitolato Modo
di cucinare et fare buone vivande, che posso mostrarti se vieni a Firenze,
dove è gelosamente custodito in una biblioteca fondata non molto tempo fa da
Riccardo Riccardi[25]. È anonimo, perché sono andate perdute le prime
pagine col nome dell’autore.”
“E cosa
mangiavano a quel tempo?”
“Ti dico
subito, anche perché molti dei piatti d’allora sono ancora oggi della cucina
fiorentina e, in fede mia, lo saranno fino a quando vi sarà gente al mondo! Lasagne,
ravioli, tortelli, timballi, pastelli e pasticci in crosta, che noi oggi si
chiama «coppi», e sono molto apprezzati qui a Napoli, città con la quale, da
quando il re Roberto d’Angiò è venuto a governare Firenze, gli scambi sono
intensi di cibo e cultura. Giotto, Petrarca e Boccaccio hanno dimorato nel
Castel Nuovo di Napoli e apprezzato la magnifica cucina di qui, ma anche portato
tanti piatti in uso da noi, come l’arrosto di gru. E sì, perché già nel
Trecento il piatto forte erano gli arrosti di anatre, oche, capponi, pavoni, e tanti
altri volatili; e l’agnello: già al tempo di Dante si faceva la spalla di
castrone stufata e poi la gualdaffa o caldume, ottima d’inverno. Sapete cos’era?
Il brodo di trippa bollente, sempre molto speziato…”
“A Napoli
di carni speziate se ne fa con cento aromi!” Interrompe il professore napoletano.
“Sfido,
col caldo e il bel tempo che c’è qui!” Fa il Britannico.
“Cosa ha a
che fare il caldo con le spezie?” Chiede sinceramente stupito il Partenopeo.
“Più è calda
la temperatura dell’aria, prima la carne dà cattivo odore e deve essere
assolutamente speziata. Da noi, in Inghilterra, il problema c’è solo d’estate
per i quarti di bue, perché dall’autunno alla primavera successiva la temperatura
consente di conservare le carni molti giorni senza che vadano a male. So
qualcosa della carne perché gradisco le buone bistecche. E allora, Acciaiuoli,
continua il tuo resoconto, ma prima dimmi quali erano le spezie della prima cucina
italiana.” Chiede l’Oxoniano.
“Zafferano,
noce moscata, pepe, cardamomo, comino, zenzero, coriandolo e, infine, cannella
e chiodi di garofano che loro mettevano dappertutto.” Elenca il Toscano.
“Più sento
di queste cose – dice il Partenopeo – più mi convinco che gli antichi libri di
cucina erano concepiti per sovrani, potenti e ricchi che li volevano imitare…”
“Stavo pensando
la stessa cosa.” Dice l’Inglese, e prosegue: “Erano scritti da uomini di
cultura ed elencavano un ampio spettro di carni di animali tanto diversi, dalla
cacciagione alle specie d’allevamento, dunque nulla che sia alla portata del
popolo…”
“Nel
Trecento sono le spezie l’elemento chiave, in quanto simbolo di potenza e
ricchezza: una sola noce moscata costava quanto sette buoi![26]” Spiega il professore di Napoli.
“Unbelievable!”
Esclama l’Oxfordiano e poi: “E per il sea food, pesci e molluschi, avevano
già delle ricette?”
“Certamente
– risponde l’Acciaiuoli – le avevano per lamprede, anguille, tinche, vari altri
pesci di fiume e gamberi d’acqua dolce. Il branzino era già cotto arrosto o al
vapore, poi diventa il pesce preferito dei Fiorentini e lo troviamo anche nel Diario
di Pontormo. I molluschi con più ricette sono polpi, seppie e calamari. Ma qui
bisogna dire che i rapporti con Napoli sono stati di fondamentale importanza,
perché dai lidi della ninfa Partenope sono venute tre chiavi di volta per cucinare
i molluschi: la prima consiste nel sostituire una parte dell’acqua che
contengono con l’olio d’oliva mediante la cottura, la seconda nel vincere i loro
grassi con l’aglio e la terza nel dar loro aroma con succo di limone e foglie
di una pianta di origine greca, che a Napoli si chiama petrosino[27], con un termine derivato dal greco petroselinon,
parola che viene da petra, che sta per pietra, e selinon,
che vuol dire sedano: un sedano che cresce sulle pietre, secondo l’identificazione
antichissima come ‘quella pianta che cresce sulle rocce delle rupi della
Macedonia e assomiglia al sedano’…”
“Non l’ho
mai vista né sentita, questa pianta…” Interrompe l’inviato.
“Per forza:
teme il freddo ed è propria dei paesi caldi.” Interviene il Napoletano.
“In breve:
i molluschi erano cucinati con aglio, olio e prezzemolo.” Sintetizza il Toscano.
“E, dunque,
sughi all’olio senza il pomodoro che verrà dall’America.” Conclude l’Inglese.
“Esattamente.”
Conferma il professore napoletano, che poi aggiunge: “Qui a Napoli, conservando
la base di aglio e olio, sono stati introdotti i pomodori dal secolo scorso, e
si fanno sughi di seppie, polpi e calamari da far resuscitare i morti,
per dirla con gli antichi Romani. Caravaggio, per mangiare queste delizie, andava
alla taverna della locanda del Cerriglio, nel vicolo più stretto e lungo di
Napoli. Conoscendo questa sua abitudine, e approfittando degli spazi strettissimi
che non consentivano la fuga, una sera del 1609 quattro aggressori lo
assalirono e lo malmenarono, lasciandolo malconcio.”[28]
“Povero
Caravaggio, per la debolezza della gola si era reso facilmente reperibile!” Osserva
sorridendo l’Inglese, ma poi con tono serioso riprende: “Sto ancora pensando
al costo delle spezie e ai libri di cucina… I ricchi hanno da sempre fatto
cultura dalla soddisfazione di un bisogno primario per la sopravvivenza, mentre
i poveri, che non riescono a far fronte nemmeno alle necessità più elementari,
rimangono alla fame, perché a volte mancano anche del proverbiale tozzo di pane.”
“La
cultura infatti – riflette il decano – non si occupa solo di istanze ideali. Non
è forse cultura la scienza, che studia la costituzione materiale di ogni cosa e
ne esplora i fenomeni e le leggi?”
“Senza
alcun dubbio. Infatti, il mio problema non è che si faccia cultura con le
ricette di cucina, ma che si ignori il bisogno dei fratelli. Se in Italia nel
Trecento una noce moscata costava come sette buoi, un ricco rinunciandovi
avrebbe potuto salvare dalla povertà sette famiglie. E oggi, forse, se tutti i
ricchi rinunciassero per un anno alle spezie del cibo non vi sarebbero più
poveri in giro. O esagero?” Chiede l’Inglese. E gli risponde il priore:
“Lodevole
osservazione. Dovrebbe essere sempre presente alla mente di tutti, che il proprio
superfluo non dovrebbe venire prima di ciò che è necessario per il
fratello. Ma credo che neanche l’altro aspetto debba essere trascurato. Voglio
dire, circa cosa sia o debba essere la cultura di un popolo. Al tempo dei pagani,
ogni cosa che fosse elaborata ad arte, da un abile realizzatore, un areté, poteva
considerarsi cultura, perché degna di essere trasmessa. Non è così per noi
cristiani: la vera cultura per noi è conoscenza radicata nell’esperienza
spirituale, e la sua trasmissione dovrebbe contribuire ad edificare l’uomo,
nella consapevolezza che l’identità di ciascuno si compie soltanto in Gesù
Cristo.”
Noi ci allontaniamo
un poco dalla mensa, come facendo una breve rotazione in uscita di un obiettivo
zoom da ripresa cinematografica, lasciando i commensali al loro conversare,
mentre avvertiamo l’abbassarsi del volume delle loro voci, che ci facilita nell’ascolto
della voce del nostro pensiero, intento a fare osservazioni su di loro e sintetizzare
un’altra ora della loro interazione sociale. La magia di un contesto comunicativo
come quello è data dal fatto che stati d’animo profondamente diversi rimangono ugualmente
sospesi nelle loro peculiarità affettive, consentendo la condivisione di uno
stile dell’agire cosciente delle menti al servizio di una dimensione comune che
riesce a temperare, attraverso l’attualità dello scambio di conoscenza mediato
dalla parola, le espressioni più aspre, acute e intense di quelle risposte
emotive interiori che, lasciate espandersi nella solitudine, possono giungere fino
ai gradi più radicalmente distruttivi della serenità razionale e del senso di
identità.
Mentre la
conversazione prende il verso della ricostruzione storica dell’evoluzione degli
utensili di cucina e delle posate, e poi dell’origine della tradizione dei
cuochi francesi[29], alla coscienza di ciascuno dei commensali si affacciano
le personali priorità di pensiero.
Il decano
pensa che si debba assolutamente cogliere l’occasione di questa visita di un
membro del Circolo di Oxford per avviare stabili rapporti di collaborazione e
scambio soprattutto fra i membri delle arti del quadrivio, perché è convinto
che tali sinergie possano far procedere il cammino della conoscenza con un passo
molto più spedito.
Il priore
pensa che si dovrebbero mandare in missione in Inghilterra dei religiosi a sostegno
dei fratelli di fede cattolici, ormai circondati da anglicani e protestanti di
numerose sette, anche se non è ancora edotto della gravità della situazione, e
in particolare della mozione parlamentare per l’abolizione delle università
cattoliche di Oxford e Cambridge.
Per parte
sua l’inviato del Circolo, che non vede l’ora di riprendere l’ascolto del
racconto della rivolta del 1647 sospeso all’episodio dello svenimento di
Masaniello, si chiede le ragioni di quella esposizione così dettagliata di fatti
avvenuti nove anni prima, e ne deduce che siano connessi con un’attualità
importante per lo Studio di Napoli e, forse, per tutta la città. E, seguendo
questo filo ipotetico, si chiede cosa si aspetti da lui l’abile narratore dell’insurrezione,
giungendo a sperare che non si tratti di una presa di posizione politica per
conto del Circolo di Oxford contro nemici sconosciuti, lontani e poco
decifrabili nelle intenzioni. E poi, mentre sentiva dire che i coltelli ora avevano
la punta arrotondata perché ormai si usavano le forchette a tre rebbi e che lo “scalco”
o “trinciante” che serviva il banchetto in Italia prendeva il pezzo di carne arrostito
con un grosso bidente, lo sollevava in aria e con un tagliente sezionava veloce
e sicuro le fette che faceva cadere direttamente nel piatto dei commensali[30], pensava quanto fossero diversi gli Italiani
dallo stereotipo imperante in Inghilterra di asceti immersi nel concepire opere
d’arte, imprese di navigazione o un’apostolica santità di vita.
Il
professore dello Studio di Napoli ha la sua tensione ideativa particolarmente
rivolta al momento in cui potrà riprendere la narrazione. Vuol far bene
intendere che la sommossa di Masaniello non è stata la rivolta di un popolo di
schiavi che ha lasciato il padrone spagnolo per poi finire dopo qualche anno al
servizio di quello francese, ma la riconquista di libertà e dignità di un
popolo di ingegni, nutrito di antica cultura, reso prudente dalla navigazione,
astuto e paziente dalla pesca, istruito dai viaggi, anche se oppresso da un
ceto di sfruttatori aduso a considerare i privilegi feudali e i barbari arbitri
di alta e bassa giustizia quale diritto divino. Il professore dello Studio di
Napoli vuole smentire la versione diffusa all’estero dalle fonti vicereali
degli eventi del 1647 e spiegare che non si è trattato di una ribellione di
lazzari e altri straccioni contro il viceré e il ceto nobiliare, ma di un ampio
movimento diretto contro il malgoverno di una cricca al potere; una
mobilitazione popolare basata su ragioni sacrosante alla quale aveva aderito la
maggior parte del clero e dei borghesi, alcuni alti nobili e molti signori. In
seno a questo movimento – che Masaniello era riuscito con carisma e abilità a
tenere insieme – la vera divisione era tra coloro che volevano usare a oltranza
i mezzi della diplomazia, come lo stesso Filomarino, e quelli ormai determinati
all’insurrezione armata.
Intanto,
si continua a versare vino, non disponendo di calici, nelle capienti brocchette
di maiolica berrettina. L’inviato di Oxford ha avuto un bel da fare a spiegare che
in vita sua non ha mai bevuto vino o altri alcoolici, tranne un assaggio di
cherry alla sua festa di laurea, ma nessuno pare l’abbia udito o inteso, e
tutti hanno insistito che bevesse, ricordandogli che anche Nostro Signore ne
beveva. Poi il decano, tenendo in mano la brocchetta colma del profumato rosso camaldolese,
si alza assicurandosi di essere imitato da tutti i commensali e prende la
parola:
“I
Lanzichenecchi, in segno di omaggio alle truppe spagnole, dicevano: lo porto
a te, intendendo il saluto, che in tedesco suona bring dir’s, poi
alzavano il calice e bevevano augurando salute e lunga vita ai loro committenti;
sicché gli Spagnoli ripetevano quanto udito a loro modo: brindis, che
noi in italiano diciamo brindisi[31]. E così oggi, con questo bring dir’s che
il nostro gradito ospite porterà come novità in Inghilterra, auguriamo a tutti
salute e lunga vita! E al membro del Circolo di Oxford auguriamo che possa conseguire
tutti gli obiettivi di conoscenza che si prefigge, facendo grande il suo Studio
e portando con sé un piccolo ricordo del nostro!”
“Non
dimenticherò mai la vostra calorosa accoglienza, e il ricordo della vostra
forza d’animo nell’affrontare la prova della pestilenza mi infonderà coraggio
quando mi verrà meno la virtù del conforto!” Dichiara sincero l’Inglese, tradendo
una certa emozione nella timbrica vocale.
Tutti
bevono. Poi ciascuno dei docenti propone un suo brindisi e, infine, riprende la
parola il decano:
“Ho appreso
con compiacimento dei nobili natali del nostro illustre commensale d’oltremanica;
d’altra parte, sebbene anche fra noi la maggior parte proviene da antico
lignaggio, si vuole, nel santo intendimento della fondazione di questa
universalità del sapere, che sia lo studio a nobilitare l’uomo. Lo studio che abbia,
oltre lo scopo immediato della conoscenza, il fine superiore della sapienza:
quella somma di virtù che per i greci era la phronesis, un’accorta
prudenza di giudizio che assume in sé l’esercizio della metis platonica al più
alto grado della ragione, congiunta alla massima espressione della sensibilità morale;
e per noi cristiani è la Sofia, ossia un altro nome dello stesso Signore
Nostro, Gesù Cristo. Quella santa sapienza o S. Sofia, alla quale i fratelli d’Oriente
dedicano tanti templi del nostro culto.”
Dopo una
breve pausa, il docente di matematica interviene sulla nobiltà di casata:
“Vi sono due
tipi di nobili: quelli veri, nobili d’animo, devoti, magnanimi, generosi, che
cercano, amando il prossimo, di farsi perdonare da Dio e dagli uomini di essere
nati così ricchi da non dover lavorare e poter contare su rendite e benefici per
realizzare la maggior parte dei propri desideri e capricci; e quelli che non
sono veri nobili, perché meschini d’animo, ma solo potenti per diritto
ereditario e capacità di corruzione: questi non amano e non vogliono essere amati,
ma fanno di tutto per essere temuti; non rispettano nessuno e non hanno fiducia
nella possibilità che esista il rispetto, perché non credono nei valori ideali,
non li riconoscono e attribuiscono anche agli altri questa loro grettezza d’animo,
così che preferiscono dominare il prossimo, trattando tutti come fossero
sudditi resi inoffensivi dal terrore.”
La
condivisione di questa dicotomia si legge sui volti di tanti fra i presenti, ma
un docente di diritto è francamente dissenziente:
“No, non è
così, se proprio vogliamo ridurre a due tipi i nobili di Napoli, allora io ti
dico che quelli perniciosi sono i nobili che continuano a concepirsi come feudatari
medievali con diritto di vita o di morte – vitae necisque potestas – su tutti
i sottoposti alla loro giurisdizione, e costoro chiamano plebe il popolo
e lo trattano come gli Spartani e i Romani trattavano i vinti che non uccidevano,
ossia come schiavi. Del resto la parola latina servus ha proprio questa
origine: i Romani, a differenza dei barbari che massacravano tutti, risparmiavano
i prigionieri, e dicevano loro: ego te servabo, ossia ti conservo,
e dunque i nemici vinti in guerra erano denominati servi. A Sparta, per
un periodo, i cittadini dei popoli sconfitti diventavano iloti, classe
infima di schiavi. L’arbitrio tirannico e disumano dei peggiori feudatari della
nostra terra non ha giustificazione alcuna, perché si esercita sui propri
concittadini, non sul popolo in armi che ti ha mosso guerra e tu hai vinto. Poi
c’è un secondo tipo di nobili, in cui tu faresti rientrare tutti gli altri; ma,
se tu li conosci, noti bene che ciascuno è fatto a suo modo, ed è difficile a
Napoli trovarne due uguali!”
A questo
punto l’Inglese, reso più spontaneo dal rosso camaldolese, trova un esempio che
accomuna i due prototipi negativi proposti:
“In ogni
caso, sia il tipo di nobile che vuole essere temuto sia quello che si comporta
da feudatario tiranno mi sembrano il ritratto del Mustaccio, come si chiama?
Diomede V Carafa, duca di Maddaloni, è vero?”
Il professore
napoletano sbianca e, in un istante, prima fulmina con lo sguardo l’ospite
alzando le sopracciglia e mimandogli un’espressione che universalmente significa:
non avresti mai dovuto dirlo, e poi si affretta a spiegare ai commensali:
“Il nostro
illustre e gradito ospite di Oxford ha avuto la cortesia di ascoltare un mio racconto
sulle vicende della nostra città, un racconto che non ho avuto il tempo di completare,
e affrettandomi nel menzionare tante persone, devo avere involontariamente generato
in lui una qualche confusione, così che ora ha fatto per errore il nome di un
gentiluomo che non risponde certo ai connotati dei due esempi negativi che sono
stati proposti. Mi scuso a suo nome e per mio conto, in quanto avrei dovuto
astenermi dal fare nomi in un racconto che non ero in grado di condurre a termine
con l’ordine, la precisione e il tempo necessari.”
“Scuse accettate
– risponde a nome di tutti un docente di teologia della famiglia Carafa, che
poi con tono inquisitorio riprende – Ma che racconto era? Mi auguro che non fosse
la narrazione dei fatti della sciagurata sommossa di circa un decennio fa!”
“Certo che
non lo era – mente il nostro professore, marcando la prosodia ossequiosa di un
tono sottilmente canzonatorio, e poi, per lasciare intendere di voler stare al
gioco della sottomissione per non turbare la pace dei frati e non coinvolgere
un ignaro ospite di riguardo in una controversia per divergenze politiche e morali,
scandisce con solennità recitativa – Me ne sarei guardato bene: è stata una
vicenda così confusa e dolorosa per noi Napoletani, che rimane sempre difficile
da rievocare e quasi impossibile da raccontare… Dico bene?”
“Benissimo!”
si affretta a rispondere un docente di musica.
“Dice bene
– spiega il Carafa – perché il nostro illustre collega è nobile, e un nobile sa
sempre quel che dice, e sa come dirlo, quando dirlo e perché dirlo. Vero? Perché
un nobile, degno del suo titolo, non perde mai la testa.” E, così dicendo, guarda
dritto negli occhi il nostro professore che, ricambiando l’occhiata con fredda
durezza, finge di proseguire con lo stesso tono il discorso del rivale:
“Ed è un
bene per lui e per gli altri! Perché, se lui perde la testa per qualche istante,
a chi gli sta intorno la farà perdere per sempre.” E il professore, con gran
turbamento e preoccupazione del suo ospite giunto da Oxford, porta involontariamente
sotto il tavolo la mano destra all’elsa della spada. Un movimento che non sfugge
al priore, il quale con voce bassa e pacata ma con tono d’autorità osserva:
“È cosa
buona non condur seco armi di sorta, quando si concorra a mensa per ringraziare
il Signore di averci preservati dal morbo e sfamati col pane quotidiano.”
“Noi allo Studio
di Oxford non portiamo armi.” Precisa l’Inglese.
“Anche noi
allo Studio di Napoli.” Si affretta a dire con imbarazzo il professore,
tentando una giustificazione: “Trasferiti qui in fretta e furia per sfuggire al
contagio facciamo un omnia mea mecum porto, come diceva Cicerone!”
“Per la
verità – osserva il priore – la frase latina è attribuita da Cicerone a Biante
di Priene, uno dei sette sapienti[32], e la si trova in cinici e scettici e, in lingua
greca, in molti filosofi ellenici antichi; ma non vuol dire che si portano indosso
tutti i propri oggetti, beni e averi materiali, ma che tutto ciò di cui si
dispone sono le doti dello spirito e dell’intelletto!”
“Come San
Francesco.” Esemplifica il professore partenopeo, per mostrare di aver capito,
mentre sembra essersi rasserenato.
L’inviato
del Circolo, dopo aver espresso con la mimica facciale il suo rammarico e le
sue scuse all’interlocutore preferenziale e già quasi amico, e averne ottenuto
in risposta un rassicurante sorriso, si rivolge al decano:
“Sono qui
per chiedere consiglio e aiuto morale circa il modo di comportarci a Oxford,
ora che siamo circondati da anglicani, protestanti, puritani e membri di varie
altre sette che tentano in ogni modo di delegittimarci e isolarci. Se dopo, quando
saremo in sala biblioteca, avrete la bontà di ascoltarmi vi esporrò le tesi che
il nostro celebrato filosofo Thomas Hobbes sta usando contro di noi, e prime
fra tutte quella che lui riesce a far risalire a San Paolo, secondo cui la fede
viene dall’udire – e lui dice – udire i nostri pastori legittimi[33], ossia gli anglicani. In tal modo, il nostro Studio
sarebbe di ostacolo alla diffusione della fede.”
Interviene
il nostro professore napoletano: “Dopo pondereremo le tesi e studieremo insieme
le risposte. Intanto, si dovrebbe concepire una strategia per resistere all’assedio,
a questo accerchiamento.”
Il decano
dello Studio napoletano: “Possiamo trarre esempio dall’unica città che ha nome
d’uomo, Paris, e dedicata dal suo antico popolo al leggendario eroe greco che
rapì la principessa Elena causando la guerra di Troia, durante la quale uccise
Achille, l’uccisore di Ettore, e infine fu ucciso da Filottete, ma non mi
riferisco a questa storia…”
Lo interrompe
il filologo dello Studio: “Ma Parigi, Paris, non è nome derivato dalla
locuzione latina Civitas Parisiorum con la quale gli antichi Romani denominarono
il grande centro detto Lutezia o Lutece dai Galli?”
Intervenendo
il grecista ed etimologista dello Studio, spiega: “Si, ma il nome dei Parisi veniva
da Paris, Paride, e il nome greco della città era più antico di quello dato dai
Galli, come si legge nel Romanzo di Troia scritto da Benoît de Sainte-Maure
nel XII secolo, mentre Lutèce, che noi diciamo Lutetia alla latina,
indicava originariamente quella parte di terreno resa fertile dalla Senna per
il fango che lasciava dopo le piene, e viene da un nome dato dai Celti. Infatti,
la radice celtica luto- compone i nomi che designano il fango e la
palude[34]. La scelta del nome ellenico viene dall’influenza
culturale greca giunta in qualche modo fino lì, come si vede e si deduce dalle monete
dei Parisi del I secolo a.C., e si comprende anche dal fatto che Cesare la
chiama Lutetia Parisiorum, mentre la popolazione locale era detta Kwarisi
nella lingua gallica[35]…”
Il decano:
“Perdonatemi se interrompo la dotta disquisizione che ha interrotto, a sua
volta, quanto stavo dicendo, ma desidero riprendere il filo. L’esempio voleva
essere questo: una città dalle profonde radici pagane dove, nonostante tutto, è
stata fondata la facoltà teologica dalla quale San Tommaso d’Aquino, prima di
tornare a Napoli, ha irradiato i principi della teologia cristiana in tutta
Europa”.
E il nostro
professore: “E come fecero San Tommaso e gli altri?”
Sorridendo,
il decano: “Non ponendosi mai come interlocutori o contraddittori dei pagani, ma
annunciando la Buona Novella come novità assoluta portata dal Cielo a tutti
coloro che sono pronti a riceverla, senza occuparsi di dar conto ad altri fuori
che a Dio e ai fratelli.”
E il professore:
“E tu ritieni e immagini che questi santi andassero per la propria strada, che
è la Via di Cristo, la Sua Verità, la nostra Vita, senza mai tener conto dei
pagani, ignorandoli?”
E il
decano: “Proprio così! Non lo ha detto il Maestro di considerare i fratelli
lontani dalla Verità come Gentili o Pubblicani? Io credo che a Oxford debbano
adottare gli stessi brani delle scritture usati da Hobbes e gli altri per
ribadirne il senso autentico, ma non rivolgendosi a loro, piuttosto proponendo questi
argomenti come riflessione pastorale a tutti i cristiani: chi ha orecchie per
intendere, intenda.”
“Potrebbe
essere una parte della strategia.” Fa meditabondo il professore, e poi: “Devono
dar prova, sia pure non rivolgendosi ai loro detrattori, della bontà del loro
operato, del fatto che le loro opere non sono meschine miserie del mondo, ma segno
dell’amore oblativo divino.”
Allora il
decano: “Dobbiamo studiare i modi usati dai nostri antichi fratelli durante le
persecuzioni seguite al periodo in cui avevano ottenuto la libertà di culto
dall’Imperatore ma erano ancora minoranza. Intendo il periodo di Galerio…”
“Temo di
non ricordare bene questo passo di storia…” Fa presente l’Inglese.
“Dunque, si
dice che con Diocleziano cessarono le persecuzioni. In realtà, dopo di lui vi
fu l’Imperatore Galerio, suo genero in quanto aveva sposato sua figlia Valeria.
Galerio promulga l’editto di tolleranza il 30 aprile del 311, col quale si
sospende ufficialmente ogni persecuzione, ossia il dare la caccia ai cristiani
per torturarli e ucciderli, ma i persecutori di professione non smettono del
tutto da un giorno all’altro, e continuano fino all’editto di Milano dell’Imperatore
Costantino, che nel 313 proclama la nostra fede religio licita.” Spiega
il decano.
“Costantino
lo conosco bene. Fu proclamato Augusto dai miei connazionali in Inghilterra, a York,
città che i Romani chiamavano Eburacum.” Fa l’Inglese, e poi, dopo un breve pausa:
“Da tutto
quello che ho sentito, ho capito una cosa molto importante: una parte evidente
della vostra forza risiede nella conoscenza della storia e nel suo uso che
genera sulla coscienza l’effetto di un sapere che ci ha preceduto. Quell’ascendente
che posseggono su di noi i nostri genitori e gli altri adulti quando siamo fanciulli.
Consultare la storia per sapere come fare, dunque, non è solo cercare nel
passato i modi e le tecniche per agire, ma è portare lo spirito nel tempo
perfetto, nel già compiuto, nella realtà rassicurante dell’esperienza già
vissuta, che consente di dominare il presente riconducendolo a certezze note, e
non lasciandolo in balìa della forza degli eventi e degli imprevisti.[36]”
“Questa
acuta osservazione rende anche noi più consapevoli del valore di un nostro
costume.” Nota il professore.
Il
sopraggiungere di un frate con una enorme ramazza di saggina fa comprendere
loro che è tempo di lasciare la sala. In particolare, il Napoletano e l’Oxoniano
vanno a visitare l’orto di Castel Sant’Elmo e, dopo, ritornano al loro
alloggiamento per riprendere la narrazione dei fatti del 1647 e, in
particolare, della vicenda di Masaniello.
[continua]
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso
che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-22 gennaio 2022
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La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Ascanio Filomarino, Lettera a
Papa Innocenzo X del 12 luglio 1647 – copia d’archivio.
[2] I Sedili o Seggi di
Napoli erano un’istituzione amministrativa della città cui partecipavano membri
scelti per votazione, definiti Eletti, e che si ritiene risalga al V secolo
a.C., quando sostituì le fratrie greche. In epoca cristiana gli Eletti
si riunivano nella chiesa di San Lorenzo Maggiore per decidere il bene comune e,
oltre ai cinque Sedili riservati all’aristocrazia, ve ne era un sesto riservato
al popolo. Benedetto Croce lamentava la scomparsa nel Novecento di tutti gli edifici
dei Sedili (Cfr. B. Croce, I Seggi di Napoli, in Aneddoti di varia
letteratura, pp. 293-301, Vol. I, 1920). Attualmente, in Via Mezzocannone,
è visibile il bassorilievo dello stemma e la lapide del Sedile di Porto.
[3] Ferrante Caracciolo, I Commentarii
delle Guerre fatte co’ Turchi da D. Giovanni d’Austria, dopo che venne in Italia,
Scritti da Ferrante Caracciolo, conte di Biccari (ampio resoconto sulla battaglia
di Lepanto) In Fiorenza, MDLXXXI (1581) Appresso Giorgio Marescotti, con licenza
de’ Superiori (originale custodito presso la Konigl. Kreisbibliothek in Augsburg,
consultabile online sul sito di MDZ – digitalizzazioni in 2D e 3D – BSB,
Bayerische Staats Bibliothek).
[4] Per la verità, le fasce alternate
dello stemma appaiono più come strisce bianche su campo rosso, così che anche
questo aspetto del racconto sembra un’evidente forzatura.
[5] Per approfondire circa l’origine
dei feudi dei Carafa: Tommaso Persico, Diomede Carafa e il Regno di Napoli.
Firenze 1895. Anche se in molte trattazioni storiche questo cognome è scritto “Sanframondo”,
sul pannello dello stemma originale della famiglia nel chiostro di Palazzo Sant’Antonio
in Cerreto Sannita, si legge: “Sanframondi”. La famiglia era francese e non longobarda,
come dimostrano documenti studiati di recente in cui è riportato l’antico nome Sancto
Fraymundo (Pacifico Cofrancesco, Sanframondo conti normanni di Cerreto:
il periodo delle origini. Edizioni A.S.M.V., Piedimonte Matese 2013).
[6] Renato Pescitelli, Chiesa
Telesina: luoghi di culto, di educazione e di assistenza nel XVI e XVII secolo,
p. 53, Ausiliatrix, Benevento 1977.
Un secolo
dopo, nel 1737, i Cerretesi si ribellarono ai Carafa, ricorrendo al Sacro Regio
Consiglio, per il clima di terrore creato dai loro sgherri. La repressione fu terribile:
120 soldati misero a ferro e fuoco Cerreto, i firmatari del ricorso furono percossi
e frustati, e le loro figlie umiliate denudandole in pubblico per accertarne la
verginità.
[7] Alla National Library of Scotland
è custodito A Gest of Robyn Hode, un manoscritto illustrato del XIV secolo.
Per approfondire: Alfred Stapleton, Robin Hood: The
Question of His Existence Discussed, More Particularly from a Nottinghamshire Point
of view. Sisson & Son 1899; per un’ipotesi originale: John Paul Davis, Robin
Hood: The Unknown Templar. Peter
Owen Publishers, 2016.
[8] Cfr. Gaetano Moroni Romano, Dizionario
di Erudizione Storico-Ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni. Vol.
XXXI, p. 62 (alla voce Giovanni XII), Tipografia Emiliana, Venezia 1845.
(Ciascuno dei 103 volumi della monumentale opera è consultabile online come
e-book gratuito messo a disposizione da “Wikipedia”).
[9] Espressione tipica napoletana (impiegata
anche da Antonino Guglielmi nella Cummedia ’e farfariello –
volgarizzazione napoletana comica della Divina Commedia) che sta ad indicare
un taciturno che si apparta sia per incapacità di socializzare sia per scelta. Spesso
i pastori dell’avellinese, giunti a Napoli come zampognari suonatori di novene
e rimasti in cerca di fortuna, frastornati dal clamore della città e non
conoscendo la lingua napoletana, né il latino parlato dai chierici, lo spagnolo
e gli altri idiomi comuni in città, se ne stavano appartati, sentendosi apostrofare
immeritatamente “puorche ’e fore morra”, così di frequente da averlo importato nel
dialetto avellinese. In realtà, per loro sarebbe stata più appropriata un'altra
locuzione del linguaggio figurato partenopeo: “asino ’mmiezze ’e suoni”, ossia
frastornati, disorientati e immoti come apparivano gli asini durante la festa
di Piedigrotta, per il clamore spesso assordante dei carri allegorici, sui
quali si esibivano attori, cantanti e formazioni musicali bandistiche.
[10] Vittorio Gleijeses, op. cit., p.
602.
[11] Da alcuni, incluso Gleijeses, è
riportato come Antimo Grassi, ma l’identificazione documentale prevalente è con
un bandito dal cognome “Grasso”.
[12] I rivoltosi non avevano un boia
e, per questo, incaricarono un macellaio.
[13] A questo proposito, Gleijeses incorre
in un errore, infatti scrive: “…confessarono di essere stati assoldati dal duca
di Maddaloni. Si diede quindi la caccia al nobiluomo che fu ucciso e decapitato…”
(p. 602). Diomede V Carafa non fu affatto ucciso, ma continuò a fare la regia
dell’istigazione del popolo contro Masaniello; in seguito acquistò una nuova sfarzosa
dimora, compì varie nefandezze, ma sopravvisse anche alla peste. Uccise
Giovannangelo Lombardi medico eletto sindaco di Cerreto Sannita e, per lo stesso
motivo, cioè aver denunciato i suoi abusi feudali, fece uccidere dal suo
sicario Carapella il diacono Francesco Magnati. Antonio Magnati, il fratello, appellandosi
al re di Spagna Filippo IV, ottenne che il Carafa fosse recluso, ma questi presto
uscì per amnistia dovuta alla nascita dell’erede al trono. Nel 1658 il viceré
Castrillo riuscì a farlo arrestare e deportare in Spagna, dove fu confinato a
Pamplona. Morì a Madrid nel 1660.
[14] Questa versione è ancora oggi
riportata da alcuni, cfr. Vincenzo Mazzacane, Memorie storiche di Cerreto
Sannita, p. 71, Liguori, Napoli 1990.
[15] La storia si è rivelata vera, perché
in epoca recente degli scavi archeologici condotti nell’area di Materdei hanno portato
alla luce cavità destinate ad accogliere defunti, risalenti al III millennio
a.C.
[16] Tra il 1588 e il 1615, per impedire
l’espansione incontrollata di Napoli, fu vietata l’introduzione in città di
materiale da costruzione, allora i Napoletani ripresero ad estrarre il tufo dal
sottosuolo come in epoca greca. Durane la II Guerra Mondiale, per salvarsi dai
bombardamenti furono allestiti nelle cavità 616 ricoveri: 369 in grotte e 247
anticrollo.
[17] Il dipinto di Micco Spadaro (Domenico
Gargiulo) L’uccisione di don Giuseppe Carafa è esposto presso il Museo
della Certosa di San Martino al Vomero in Napoli.
[18] Oggi non abbiamo alcuna
difficoltà, in assenza di dati documentali circa la presenza di sintomi diacritici
di particolari condizioni patologiche, a ipotizzare una lipotimia da stress,
ossia una risposta centrale riflessa temporanea e reversibile ben distinta dal
collasso cardiocircolatorio e da altre crisi patologiche.
[19] Cfr. Paolo Petroni, Il Libro
della Vera Cucina Fiorentina, p. 33, Giunti Editore, Firenze 2012.
[20] Cfr. Paolo Petroni, op. cit., p.
32.
[21] Paolo Petroni, op. cit., pp.
30-32.
[22] Breakfast, in inglese,
letteralmente vuol dire rompi o arresta (break) il digiuno (fast).
[23] Cfr. Carl Zimmer, Soul Made Flesh – The Discovery of the Brain and
How It Changed the World, p. 136, Free Press (Simon & Schuster), New York
2004.
[24] Questa molteplicità di religioni
finirà in nessuna religione del tutto
(Boyle cit. in Carl Zimmer, op. cit., p. 135).
[25] Il Modo di cucinare et fare
buone vivande è un manoscritto incompleto che corrisponde alla segnatura 1071 della
Biblioteca Riccardiana di Firenze (Palazzo Medici Riccardi, in Via de’ Ginori),
comincia dalla pagina 40 e termina con la ricetta del “savore nero”. La Biblioteca
Riccardiana è stata fondata all’inizio del 1600 e custodisce una vastissima raccolta
di opere mai catalogate, inedite e sconosciute, per cui è facile prevedere che
nei prossimi anni si faranno scoperte con un semplice lavoro di ricognizione. Ad
esempio, all’interno del Codice Vaglienti (1438-1514) 1910 è stato scoperto il
più antico manoscritto di traduzione del Corano in volgare neolatino toscano risalente
agli anni 1210-1213; prima di questa scoperta, la più antica traduzione si
riteneva fosse quella di Andrea Arrivabene del 1547. Oltre al manoscritto
autografo di Machiavelli delle Istorie fiorentine, sono catalogati nella
Riccardiana numerosi cimeli di pregio assoluto.
[26] Cfr. Paolo Petroni, op. cit., p.
17.
[27] Nome scientifico Petroselinum
crispum, detto anche Petroselinum hortense, e comunemente prezzemolo.
Proprio l’origine greca antica indicata dai Napoletani ai Fiorentini diede
luogo al detto toscano: “antico come il prezzemolo”. Di più recente origine
napoletana è la locuzione “prutusino ogni menesta” per indicare una persona presenzialista
che compare in ogni contesto sociale, anche intromettendosi quando non sarebbe
il caso. Nel Convivio, Dante lo tiene distinto dal sedano, che
chiama appio, come in latino, da cui viene il napoletano moderno accio.
[28] L’aggressione fu dovuta con ogni
probabilità a rivalità amorosa e non è da ricondursi alla condanna per l’uccisione
di Ranuccio Tommasoni, come creduto in passato. La taverna della locanda del
Cerriglio, che esiste ancora, fu celebrata col poema eroico Lo Cerriglio ’Ncantato
da Giulio Cesare Cortese (Camillo Cavallo in Napoli 1645 – prima edizione
già postuma nel 1628), letterato napoletano, membro dell’Accademia della Crusca
e amico di Giambattista Basile, anche lui frequentatore del Cerriglio, che scrive:
Trasire a lo Cerriglio è doce.
[29] Tutte le famiglie nobili
napoletane di quel periodo e molte famiglie benestanti avevano il cuoco
francese o Monsieur, diventato in napoletano “Monsù”, secondo una
tradizione ancora seguita da alcuni a Napoli e considerata, soprattutto fino al
Novecento, un ambito segno di distinzione. La moda del cuoco francese nel Seicento
investe anche Firenze, che era stata il modello culinario per gli apprendisti d’oltralpe,
così si danno nomi francesi alle preparazioni fiorentine: la salsa tonnata
diventa “toné” e le ricette nostrane rivedute e corrette da veri o falsi chef
sono dette “franzose” (Cfr. Paolo Petroni, op. cit., p. 33).
[30] A Firenze le forchette,
inizialmente a due rebbi o bidente, si usavano già dal Trecento; in questo
periodo erano ormai comuni le forchette a tre rebbi. Le forchette a quattro denti
come quelle attuali, inizialmente riservate agli spaghetti, si diffondono dal
Settecento. Lo scalco o trinciante fu esportato in Brasile dai Portoghesi e oggi,
nelle churrascarie brasiliane tradizionali, si esibisce con una vera e propria picca
che trafigge ogni volta tre esemplari dello stesso taglio di carne (inclusa la deliziosa
picanha) a tre gradi di cottura (bem passada, mal passada, o ponto)
e con un tagliente, a volte a foggia di spada antica, taglia la fetta richiesta
facendola cadere nel piatto dei partecipanti al rodizio.
[31] Cfr. Giacomo Devoto, Avviamento
all’etimologia italiana, Mondadori, Milano 1979.
[32] I sette sapienti o sette
savi (hoi hepta sophoi) sono, secondo Platone, Biante, Pittaco, Solone,
Talete, Cleobulo, Chilone e Misone.
[33] Cfr. Thomas Hobbes, Leviatano (2 voll.) II vol., p. 582, Fabbri Editori,
Milano 1996. Hobbes trae da San Paolo (Lettera ai Romani 10, 17) che la fede
viene dall’udire, ma la usa per affermare l’importanza dei “pastori
legittimi”.
[34] Oggi qualcuno ha proposto che l’origine
di Lutèce possa essere messa in relazione alla caratteristica di terre
paludose di due aree parigine, il quartiere le Marais e la montagna di Saint-Geneviève
o Lucotecia, ma in tutti i documenti più antichi si attesta il carattere
fertile e prospero dell’area circostante la Senna dove si era formata la città,
la cui continua espansione si doveva proprio alle ottime condizioni di vita, molto
lontane dall’impraticabilità malsana delle paludi.
[35] Attualmente per lo più translitterato
in Quarisi. È interessante notare che le deduzioni storiche finora proposte
per l’origine del nome della città e del popolo stesso che la abitava sono state
recentemente messe in crisi da studi che hanno combinato i metodi archeologici con
quelli dendrocronologici (basati sul conteggio degli anelli di accrescimento
annuale degli alberi secondo Andrew Douglass), per studiare i resti legnosi dello
strato sotterraneo cittadino più profondo sulla crosta terrestre: l’insediamento
dei Galli Parisi risale al IV secolo d.C., ossia 50 anni dopo la conquista
romana. La Lutetia romana fu fondata sulla riva sinistra della Senna a monte
della confluenza del torrente Bièvre, dove ora sorge il quartiere latino. La
città fu letteralmente rifondata dai Franchi, in particolare dalla dinastia dei
Merovingi.
[36] L’utilizzo della dimensione
storica mediante legame identificativo è uno dei numerosi strumenti psicologici
da me introdotti in passato nella pratica psicoterapica. Il soggetto, se riesce
a collocare la sua attualità psichica nella dimensione del già vissuto,
e per questo del noto e dominabile, può sottrarsi all’ansia che
deriva dall’alea di un presente aperto all’imprevedibilità – che diventa quasi “imponderabilità”
nell’intensità reattiva della persona già sotto effetto di stress –
innalzando molto la soglia di attivazione degli equivalenti umani della fight
or flight response, in relazione ai fatti della vita che erano stati
automaticamente classificati dall’apparato psichico come allarmanti.